R E C E N S I O N E
Articolo di Luca Franceschini
“It takes life to love life”. Non c’entra nulla ma per qualche strana ragione il corto di Mike Mills (non quello dei R.E.M. bensì un regista di stanza a Los Angeles) a cui questo disco si accompagna, mi ha fatto venire in mente l’ultimo verso di quella famosa poesia dell’Antologia di Spoon River, “Lucinda Matlock”, che tra parentesi è anche una delle poche a non essere ammantata di rabbia e cupa disperazione.
C’è una donna che nasce, cresce e muore, la storia di una vita piuttosto ordinaria, coi suoi alti e bassi, momenti bui e luminosi, tristi e allegri. Una vita, appunto. Senza dire nulla, senza discorsi, senza teorizzazioni. Eppure è abbastanza per far vedere che la vita, in sé, è una roba meravigliosa. Non so a voi ma a me proprio questa mancanza di un’idea di fondo esplicitata, questo fluire inarrestabile di eventi raccontati nella loro più pura quotidianità, ha messo davanti agli occhi ancora di più il nocciolo della questione: che la vita, appunto, è un dono bellissimo di cui dovremmo tutti essere grati.
La stessa cosa, forse, si potrebbe dire di I Am Easy To Find, ottavo lavoro dei The National e già candidato al titolo di disco dell’anno. Niente di nuovo sotto il sole o quasi, il solito marchio di fabbrica ripetuto ad oltranza con poca o nessuna variazione nella sostanza. Eppure, ancora una volta, un capolavoro, un’esemplificazione disarmante di autentica Bellezza.
Cos’ha questa band per essere così grande? Per non sbagliare un colpo in maniera quasi irritante, tutte le volte che si ripresenta sul mercato?
Probabilmente la ragione è molto più banale di quel che sembra: sono cinque musicisti bravissimi, uniti e affiatati (mai subito un cambio di formazione in vent’anni, cosa più unica che rara nel mondo del rock), dotati di sufficiente personalità umana ed artistica per non esaurirsi nell’attività del gruppo e canalizzare la propria creatività in numerosi altri progetti; e poi sono cresciuti lentamente, senza strappi, disco dopo disco, facendo sì che il mondo li scoprisse veramente solo con Boxer, che era già il quarto capitolo della loro discografia. Ne hanno parlato loro stessi in un’intervista recente e non posso che essere d’accordo: probabilmente erano altri tempi, i Social non c’erano e l’isteria da “spaccare tutto al primo singolo” non era ancora una priorità. Eppure, che differenza con quei gruppi, tipo Strokes o Interpol (i primi li cita lo stesso Matt Berninger nel testo di Not in Kansas) che rivoluzionarono il mondo indipendente all’esordio ma che poi non riuscirono più a ripetersi, tuttora costringendo fan e recensori a tirare in ballo i paragoni col passato nel momento in cui bisogna giudicarne il presente.
La band dell’Ohio invece ha ingranato lentamente, si è presa il lusso di progredire in maniera graduale, ha superato la frustrazione di vedere certi colleghi scalare le classifiche ma poi ha raccolto tutto quello che ha seminato e molto di più.
Oggi sono forse uno dei pochissimi gruppi a mettere d’accordo tutti: se persino dei Radiohead esiste gente che li considera sopravvalutati dopo Ok Computer (vabbeh, ognuno ha i suoi problemi) per Matt Berninger e compagni ho sempre e solo visto manifestare stima e rispetto, anche qualora la proposta musicale che offrono non andasse a genio.
I Am Easy To Find arriva a meno di due anni di distanza da Sleep Well Beast, che al contrario aveva colmato un gap che durava dal 2013. C’è stata dunque la voglia di buttar fuori in fretta nuova musica, conseguenza di una fase creativa particolarmente intensa (anche se, per la verità, i nostri hanno sempre scritto tantissimo).
Il sodalizio con Mike Mills (che si è messo pure a produrre il disco, cosa stranissima per lui, che non è un musicista di mestiere) aggiunge fascino all’opera ma è bene dire che sono due cose piuttosto distinte: il corto è indipendente dal disco, nonostante usi quelle musiche e ci siano qua e là alcuni richiami ai testi.
Musicalmente siamo in linea col precedente e allo stesso tempo ci si muove su territori completamente diversi. È giusto dire che dopo High Violet i The National abbiano iniziato a preoccuparsi meno di scrivere grandi canzoni (perché ormai queste uscivano fuori con il pilota automatico o quasi) e si siano concentrati molto di più sugli arrangiamenti, arrivando a toccare livelli altissimi, ogni volta sempre più vicini alla perfezione. Merito dei due fratelli Dessner, esperti nel proprio strumento ma particolarmente versatili nella scrittura e nella produzione (Bryce è un compositore di musica classica particolarmente affermato, in tanti lo seguono senza minimamente conoscere quello che fa con la band); dall’altra parte però c’è l’altra coppia di fratelli, Scott e Bryan Devendorf, e soprattutto quest’ultimo, col suo modo di suonare la batteria, ha decisamente fatto scuola, contribuendo a personalizzare non poco il sound del gruppo.
Oggi un pezzo dei The National lo riconosci subito, sia per la voce di Matt sia per gli incastri ritmici e per il tessuto elettronico: col tempo, ogni tassello è divenuto parte di un insieme coeso ed il fascino, oltre che nell’insieme, sta anche e forse soprattutto nei dettagli.
Se Sleep Well Beast era minimale, elettronico e anche scuro in una sua particolare maniera, quest’ultimo, pur senza rinunciare ai glitch e agli effetti (si veda per esempio l’iniziale You Had Your Soul With You) punta molto di più sull’elemento orchestrale ed è nel complesso un po’ più aperto e luminoso (sempre secondo i canoni di questa band, quindi non tantissimo). La vera novità, però, sta nella presenza di sei voci femminili ad affiancare quella di Matt, che duettano con lui per tutto l’arco del lavoro. Si tratta di Lisa Hannigan (legata al mondo dei National da quando Aaron Dessner le ha prodotto “At Swim”), Eve Owen (appena diciassettenne, sta collaborando con Aaron), Gail Ann Dorsey (storica corista di David Bowie) Mina Tindle (che è in realtà Pauline De Lassus, la moglie di Bryce), Kate Stables (collaboratrice di vecchia data della band) e Sharon Van Etten (su di lei è inutile spendere parole).
Una soluzione sorprendente (non ricordo altri esperimenti simili, se non forse in quei dischi Pop e Neo Soul dove la presenza dei featuring è un elemento fondamentale) che permette alla proverbiale voce baritonale del singer di uscire alla grande, come forse mai in precedenza e favorisce l’impostazione dialogica di tutte le tracce, che vanno così a mettere in scena quello che, a leggere bene i testi, pare essere il filo conduttore del lavoro: il rapporto uomo-donna in tutte le sue sfaccettature, con tutte le sue difficoltà, le sue incertezze, ma anche la sua bellezza, nella consapevolezza che l’altro è sempre e comunque un mistero con cui bisogna fare i conti. Tutto questo rappresentato con grande efficacia, con Berninger che si dimostra ancora una volta la grande penna che è, coadiuvato come al solito dalla moglie Carin Besser.
Il risultato finale è indimenticabile, un lavoro certamente impegnativo sia per lunghezza (16 tracce per 65 minuti al giorno d’oggi non sono semplici da reggere) che per caratteristiche musicali (pochissime le accelerazioni, la maggior parte dei pezzi si muove su coordinate introspettive e nessuna melodia è davvero immediata) ma che è l’ennesimo album gigantesco della discografia dei The National.
Isolare singoli episodi risulta difficile ed è forse anche superfluo, all’interno di un disco che possiede un’impronta corale molto più dei precedenti. Eppure, dovendo tirare in ballo i gusti personali, mi limiterei a citare Oblivions, dove l’interazione tra Berninger e la Tindle raggiunge vette di intensità mai viste, oppure So Far So Fast, splendido lavoro orchestrale e Lisa Hannigan protagonista con un’interpretazione assoluta, dedicata a tutti coloro che ancora la considerano come l’ennesima reginetta del Folk.
Brilla poi di nuova luce Rylan, un pezzo ripescato dagli archivi della memoria, eseguito tantissimo dal vivo (lo abbiamo ascoltato anche a Milano lo scorso settembre) e qui reso in maniera decisamente affascinante. Interessanti sperimentazioni in Where is Her Head, tutta giocata sull’alternanza tra un ritornello corale affidato alle voci femminili ed una strofa quasi parlata interpretata dal solo Matt. O ancora, Dust Swirls in Strange Light, composizione per coro e orchestra altamente evocativa.
Da ultimo, è impossibile non tirare in ballo Not in Kansas, che è il brano dove la band, dopo averlo portato a più riprese sotto pelle, si confronta direttamente con il grande songwriting americano, da Bob Dylan a Neil Young, senza per nulla uscirne sconfitta.
Game, Set, Match. I The National sono la più grande band contemporanea, l’unica uscita dagli anni Zero a potersi permettere di giocare totalmente secondo le proprie regole, l’unica che è riuscita ad imporre la propria identità con prepotenza ed insieme con disinvoltura. Li aspettiamo dal vivo (verranno all’Ypsigrock ad agosto ma ci saranno verosimilmente altre date in autunno o inverno) con l’incognita del come verranno riprodotti sul palco i nuovi brani ma con la certezza che sarà bellissimo.
Tracklist:
01. You Had Your Soul With You
02. Quiet Light
03. Roman Holiday
04. Oblivions
05. The Pull Of You
06. Hey Rosey
07. I Am Easy To Find
08. Her Father In The Pool
09. Where Is Her Head
10. Not In Kansas
11. So Far So Fast
12. Dust Swirls In Strange Light
13. Hairpin Turns
14. Rylan
15. Underwater
16. Light Years
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