L I V E  R E P O R T


Articolo di Luca Franceschini e immagini sonore di Andrea Furlan

Ho visto per la prima volta i La Crus dal vivo nel 1999, al Rolling Stone di Milano, quando “Dietro la curva del cuore”, il loro terzo disco, era appena uscito ed erano ancora una delle band più rappresentative della nuova ondata rock italiana, tra i primissimi a declinare la lezione dei cantautori in una chiave più moderna, attraverso l’uso disinvolto dell’elettronica, sapientemente mescolata con strumenti classici come archi e tromba.

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Nel tempo le cose sono cambiate, è arrivato l’Indie, ci sono state alcune band che hanno ripreso la loro lezione (vedi Non voglio che Clara e Valentina dorme, per citare le più importanti), cantautori più dimessi e Lo Fi (Dente), nuovi fenomeni generazionali (I Cani, Brunori SAS) e il quadro si è notevolmente complicato. I La Crus non ce l’hanno mai fatta a fare il grande salto, nonostante avessero tutti i requisiti giusti e nonostante i numeri importanti e le lodi pressoché unanimi della critica ricevute con i loro primi due dischi.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanNeppure un lavoro decisamente più easy listening come “Dietro la curva del cuore” servì a far crescere le loro quotazioni. Nel frattempo subentravano divergenze interne, arrivava un disco come “Ogni cosa che vedo”, con episodi interessanti ma nel complesso sfilacciato e fuori fuoco; nel 2008, dopo un concerto agli Arcimboldi a cui io non presi parte (e giuro che non ho la minima idea del perché) si sciolsero definitivamente, nonostante una comparsata a Sanremo tre anni dopo che non ebbe però un seguito significativo.

In questo periodo è successo un po’ di tutto, sia Mauro Ermanno Giovanardi che Cesare Malfatti hanno portato avanti una carriera solista, unitamente a diversi progetti di collaborazioni e produzioni. Il mondo musicale è nuovamente cambiato, quello che un tempo era l’habitat florido dell’Indie italiano si è tramutato in una faccenda da vecchi nostalgici, l’It-Pop e la Trap hanno rapidamente fagocitato il mercato, si sono identificate con il mainstream e hanno provocato un vero e proprio cambio generazionale.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanLa scena degli anni ’90 è divenuta dunque una faccenda da reduci, un periodo di fervente creatività che ogni tanto ci troviamo a rievocare ed omaggiare, nella consapevolezza un po’ agrodolce del fatto che in qualche modo siamo sopravvissuti ma che nulla sarà più come prima.

Io non la vedo affatto così, però. Andare a vedere la nuova versione di “Mentre le ombre si allungano” a vent’anni dalla rappresentazione originale, non è affatto un modo per rievocare i bei tempi andati bensì, semplicemente, per godere ancora una volta di un gruppo straordinario e di quello che è ancora in grado di darci.

Non si tratta di una reunion, comunque. Ci hanno tenuto a ribadirlo loro stessi quando hanno annunciato questa serie di date. Mauro Ermanno Giovanardi e Cesare Malfatti stanno semplicemente riproponendo lo spettacolo del 1999, che portava in teatro le loro canzoni, rilette in chiave minimale e con un ruolo più marcato dell’elettronica, assieme a poesie e scritti vari, il tutto accompagnato dagli efficaci visual di Francesco Frongia.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanSi è partiti con le tre serate al Teatro dell’Elfo, luogo storico di Milano, una sorta di seconda casa per il gruppo. La sala prescelta è la Fassbinder, poco più di 200 posti, atmosfera intima e raccolta, ideale per un evento di questo tipo. Io sono stato all’ultima replica ed è comunque confortante notare come ci siano davvero pochissime poltroncine vuote. Ok, parliamo di 600 persone in tutto ma di questi tempi è comunque un successo, considerata anche tutta la situazione che ho esposto prima.

Appunti per voci, suoni e immagini”. Questo il sottotitolo ed in effetti la natura del lavoro è stata esattamente questa. Non un concerto, non una rappresentazione teatrale vera e propria e neppure un insieme coeso di musica e monologhi, come è stato il “Teatro canzone” di Giorgio Gaber.

Piuttosto, una serie di appunti, di schizzi, idee e suggestioni, dove più che l’arco narrativo è importante l’impressione di ciò che di volta in volta si viene a creare, l’insieme sempre efficace di musica, parola e immagini, in un continuo breve (un’ora e venti circa) ma senza respiro.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanL’allestimento è scarno, essenziale. C’è una consolle con la quale Cesare gestisce le basi, incise su due vinili separati, uno con le parti elettroniche, l’altro con gli archi. A sinistra una poltrona, sulla quale Giovanardi canterà la maggior parte dei pezzi. Sul pavimento, una serie di fogli sparsi, sui quali sono stampati i testi e le poesie che verranno letti man mano. Sullo sfondo, uno schermo che proietta in continuazione filmati, per lo più in bianco e nero, sfuocate ed evocative immagini di vita quotidiana, e scritte che riprendono versi significativi dei testi delle canzoni.

Lo spettacolo vive della perfetta divisione dei ruoli tra i due: Gio canta, suona l’armonica e legge poesie; Cesare si occupa delle basi e suona la chitarra in parecchi brani. Il risultato complessivo è affascinante. Le canzoni sono come le ricordavamo, gli arrangiamenti sono davvero belli, soprattutto le basi elettroniche che, come già ci avevano anticipato durante l’intervista di settimana scorsa, non hanno minimamente perso la loro attualità. Tecnicamente non è un concerto ma gli applausi tra un pezzo e l’altro sono inevitabili e non si può non provare più di un brivido di commozione nel riascoltare canzoni che ci hanno accompagnato per così tanti anni.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanSi parte con “La finestra di casa mia”, per poi passare subito a “Natale a Milano” e da qui in avanti, ad una selezione del repertorio dei primi tre dischi. Tra un episodio e l’altro, diverse poesie e testi, alcuni sicuramente di Giovanardi (per esempio uno scritto che riprende il testo di “Inventario” ma anche brani già incisi su disco come “Quando incontri la vita”), altri che non sono riuscito ad identificare. Il cantante è ovviamente più teatrale del solito ma di fatto il suo ruolo è sempre quello, così come del resto anche l’ossatura dello spettacolo è costituita dalle canzoni dei La Crus. La voce poi è splendida, profonda ed espressiva come non me la ricordavo, l’impressione è che col tempo la sua tecnica si sia affinata e che ora sia molto più a suo agio, più in grado di controllarla, più maturo nel timbro e nell’esecuzione. I pezzi forti ci sono più o meno tutti: “La luce al neon dei baracchini”, “Correre”, “Dentro me”, “Come ogni volta” (su questa è stato oggettivamente difficile non commuoversi), “Nera signora”, “Le cose di ogni giorno”, “L’uomo che non hai” (in una inedita versione con meno archi e una base elettronica più cupa e cadenzata), “Stringimi ancora” (che è quella che contiene il verso che dà il titolo allo spettacolo), “Buco di pietra” e altri episodi che hanno reso i La Crus una delle band italiane più grandi di sempre.

la-crus-teatro-elfo-puccini-foto-di-andrea-furlanIl finale, affidato eloquentemente a “Sarà domani”, potrebbe anche in qualche modo prefigurare scenari futuri, che parlino di un ritorno in pianta stabile del gruppo. Se fosse così sarebbe meraviglioso ma è anche giusto rimanere nel presente senza farsi troppe illusioni. Nel frattempo ci godiamo il bis: Gio e Cesare, liberi dai vincoli dello spettacolo, propongono una versione chitarra e voce de “Il vino”, il brano di Piero Ciampi contenuto nel loro primo disco, che è diventato uno dei loro episodi più rappresentativi. Il pubblico lo sa e canta in coro il ritornello, trasformando una malinconica ballata in una sorta di allegro canto da osteria.

È stato bellissimo ritrovare i La Crus così in forma, seppure ridotti a due elementi e in una situazione diversa da quella del canonico concerto. È stata l’occasione per rendersi conto di quanto ci sono mancati. E di quanto rimarranno per sempre parte del nostro vissuto.

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