R E C E N S I O N E
Articolo di Luca Franceschini
I Cheap Wine, sono sicuro di averlo già scritto in passato, rappresentano un’autentica anomalia nel panorama musicale italiano. Da sempre legati a sonorità “americane” (che sia il Paisley Underground di scuola Dream Syndicate o l’epica chitarristica di mostri sacri come Neil Young e Tom Petty), in un paese che si è sempre mosso ben lontano da questa tendenza; da sempre estranei ad etichette, uffici stampa e qualunque altro discorso da music business, rigorosamente autoprodotti, rigorosamente in controllo di qualunque aspetto riguardante la propria musica, sono riusciti a festeggiare i vent’anni di carriera (nel 2017 con Dreams) senza mai rinunciare alla loro particolare visione e senza la benché minima flessione dal punto di vista artistico. Uniche due concessioni: l’approdo su Spotify (anche se le nuove uscite vengono rese disponibili sulla piattaforma solo diverso tempo dopo) e il ricorso al crowdfunding, grazie al quale hanno finanziato Dreams e il nuovissimo Faces.
Una scelta che per molti motivi, troppo lunghi e superflui da spiegare qui, non mi trova d’accordo ma che comprendo benissimo, all’interno di un contesto che di sicuro è molto poco favorevole a chi decide di fare dell’arte un lavoro vero e proprio.
Detto questo, Faces arriva dopo 22 anni di strada ed è il tredicesimo lavoro in studio per un gruppo che (sarà un luogo comune ma è la pura verità) ha avuto l’unica “colpa” di nascere in un luogo diverso da Stati Uniti o Gran Bretagna.
Faces nasce ancora una volta da un’urgenza creativa bruciante, dal bisogno fisico che i cinque hanno di scrivere e registrare canzoni per poi suonarle on the road: sono questi gli ingredienti principali del nuovo disco dei Cheap Wine ed è questo che rende ogni loro uscita un atto d’amore, indipendentemente poi dai contenuti che vi si troveranno.
Faces è senza dubbio un disco spigoloso. Se Dreams funzionava come una giostra di colori, era aperto alla speranza e si muoveva sui binari consueti di un rock and roll esplosivo e liberante, questa nuova creatura sembra ritornata alla disillusione e alla rabbia latente che, seppur con declinazioni diverse, li ha sempre contraddistinti.
Certo, non siamo dalle parti di Beggar Town, che a tutt’oggi rimane a mio parere il lavoro più cupo dei nostri, ma di motivi per gioire non ce ne sono molti. Del resto, a pensarci bene, l’essenza stessa del rock è sempre stata questa: il sentirsi esclusi, reietti, fuori posto rispetto ad una società che impone un dress code fisico e mentale ai propri membri e opponendo a tutto questo l’affermazione della propria identità, la libertà intesa come diritto a trovare il proprio posto nel mondo, emancipandosi dai modelli forzosamente indicati come “corretti”.
Non a caso il disco si chiude ripetendo più volte il verso: “I can’t stand all those lies and those who can’t look me in the eye”. Ad un mondo per molti versi falso (non a caso Based on Lies è tuttora uno dei lavori più significativi, per capire la loro visione del reale), si oppone così quella sincerità e quel desiderio di bene che dovrebbe essere proprio di ogni essere umano.
I testi di Marco Diamantini (come sempre proposti anche in traduzione italiana, atto di gentilezza nei confronti di chi non conosca bene l’inglese e insieme presa di posizione netta su come ogni canzone si componga in egual misura di testo e musica) ruotano dunque attorno a questi temi, prendendo come immagine centrale quella dei volti, delle “facce”, che sono quelle degli uomini incontrati per la strada in tutti questi anni, ma anche quelli che il percorso di Marco non lo hanno mai incrociato e mai lo incroceranno.
Facce nella maggior parte dei casi bruciate dalla fatica, dai dolori e dalle delusioni, facce consumate dal tempo eppure, in qualche modo misterioso, facce che continuano ad andare avanti, che rifiutano di arrendersi.
Ecco, se c’è qualcosa di positivo in questo disco, è che la resa non è contemplata. Che sia l’orgogliosa dichiarazione di avere la testa tra le nuvole (“Well, you don’t know I’m still flying, and you seem so small when I look at you from above”), di essere nato per volare (“I’ve got wings and the blue sky tells me I can fly high”) o il ghigno di di soddisfazione nell’essere definito un “disadattato” (“I’m an outcast, I’m insane, I’m a misfit, lazy and vain. I’m a grown man with a wild child brain”), in queste nove canzoni si combatte una battaglia che è ben lungi dall’essere dichiarata perduta.
Disco spigoloso, dicevamo. Lo si avverte nei riff portanti (valga per tutti quello dell’iniziale Made to Fly), taglienti e allo stesso tempo portatori di una non definita oscurità. Lo si sente nel ritmo, sempre trattenuto, con anche i brani più energici (The Great Puppet Show, Disguise) che non esplodono mai. Lo si percepisce con chiarezza nel lavoro delle tastiere, con Alessio Raffaelli che, nel momento in cui offre forse la sua migliore prova, scombina le carte cambiando quasi tutti i suoni, rinunciando quasi del tutto al pianoforte che era un po’ il suo marchio di fabbrica, e puntando molto su atmosfere a tratti lugubri, a tratti addirittura stranianti.
Ne esce un lavoro da cui affiora un senso di insicurezza, con pochissimi momenti di apertura (la ballata New Ground e la più rockeggiante Misfit, con la sua bellissima melodia chitarristica, nonché unico episodio dove c’è un vero e proprio ritornello) e un parziale ritorno alla psichedelia disturbata degli esordi: ascoltare per esempio Princess, che a dispetto del titolo è tutt’altro che una canzone d’amore ma suona piuttosto come una versione aggiornata del vecchio classico Mary; oppure la title track, con quei suoni di chitarra profondi, che scavano nell’anima e una coda dove Alessio e Michele Diamantini dialogano alla perfezione.
A corredare il tutto, anche se è superfluo aggiungerlo, c’è il meraviglioso lavoro di registrazione di Alessandro Castriota (nel solito studio di Marzocca, in provincia di Ancona) che unitamente alla produzione della stessa band, tira fuori per l’ennesima volta dei suoni da far accapponare la pelle. Per non parlare poi dell’esecuzione, con in particolare degli assoli di livello assoluto, che sembrano costituire un gustoso antipasto di quello che ci aspetterà dal vivo.
L’ennesimo centro per un gruppo che non ha più nulla da dimostrare, che non deve innovare a tutti i costi ma che semplicemente aggiustando il tiro qua e là, riesce ogni volta a tirar fuori un disco degno di essere ascoltato.
Non dovrebbero esistere, se il mondo andasse secondo i parametri di chi detiene la maggioranza. Ma per fortuna esistono ancora le eccezioni e gli spazi di libertà. Dopo tutto, come dicono loro, “Rock and Roll is a state of mind”.
Tracklist:
1. Made to fly
2. Head in the clouds
3. The great puppet show
4. The swan and the crow
5. Faces
6. Princess
7. Disguise
8. Misfit
9. New ground
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