R E C E N S I O N E


Articolo di Luca Franceschini

Non calcolo mai neppure di striscio tutti coloro che ci ammorbano con paternali stucchevoli sulle presunte opinioni politiche di Morrissey. Il soggetto in questione è sempre stato scomodo, sia come essere umano, sia come personaggio. Però chissà perché quando augurava alla Thatcher di essere ghigliottinata raccoglieva quantità indescrivibili di elogi, mentre ora che manifesta sostegno a Nigel Farage e al suo Ukip, viene considerato alla stregua di un genio del male. Stessa cosa per quanto riguarda il suo veganismo oltranzista (iniziato peraltro molto prima che divenisse una moda ammantata di neopaganesimo) che, al di là di divertenti prese in giro, ha sempre raccolto il rispetto e la stima dell’opinione pubblica. 
Perché diciamolo chiaramente: nel XXI secolo ci sono cose che si possono dire e altre no. Chi pensa che viviamo in un’epoca di libera opinione si sbaglia di grosso. Fascismo e razzismo, in particolare, sono due concetti talmente abusati che forse, per non essere accusati dell’uno o dell’altro, bisognerebbe semplicemente fingere di essere morti. 
Tutto questo per chiarire che al sottoscritto, delle opinioni di Morrissey non frega assolutamente nulla. Che poi basterebbe un brano non certo recente come “Bengali in Platforms” per capire che su certe cose ci ha sempre giocato. E men che meno mi interessa del suo orientamento sessuale, altro oggetto di dibattiti e speculazioni da almeno tre decenni (peraltro alimentate in modo perfido e geniale dal diretto interessato) o dei suoi gusti alimentari. 

Morrissey per me rimane il cantante degli Smiths e un artista solista di altissimo livello e questo non cambierà mai, neppure se domani se ne venisse fuori a negare l’Olocausto o peggio. Volete denunciarmi? Denunciatemi, bannatemi dai Social, aspettatemi sotto casa, se questo vi fa sentire persone migliori. 
Quindi, parlando di musica, è uscito il nuovo disco di Morrissey. Si chiama I Am Not a Dog on a Chain ed è l’undicesimo di una carriera solista ormai ultra trentennale che ha conosciuto fasi alterne ma che, dovendo tirare le somme, è stata più positiva che negativa: alcuni dischi piatti o senza senso negli anni ‘90 ma poi una serie piuttosto lunga di quasi capolavori, con gli ultimi due ad attestarsi su livelli ben più che discreti (molto meglio Low in High School di World Peace is None of My Business se proprio dobbiamo esprimerci). 
Esaurita la parentesi di California Son, il disco di cover che ci era sembrato un po’ troppo confuso e velleitario, l’ex Smith torna a dar fuoco alle polveri, avvalendosi per l’ennesima volta di Joe Chiccarelli in cabina di regia e confezionando un lotto di canzoni scritte per la maggior parte con il contributo di Jesse Tobias (con cui aveva già composto You Have Killed Me, uno dei singoli di maggior successo della sua carriera). 
Difficile descrivere questo lavoro: forse la cosa migliore da dire è che fotografa perfettamente il momento attuale di Morrissey, a partire dal titolo ironico e ammiccante. 
Le coordinate sono più o meno le stesse dei due precedenti, con la differenza che c’è stata una maggior asciugatura dei contenuti (leggi, minutaggio inferiore e brani nel complesso più snelli) e forse un utilizzo più frequente di suoni morbidi, meno chitarre distorte, più acustiche, fiati e orchestrazioni varie. 
È un disco Pop, come da sempre il nostro ci ha abituato a sentirne; magari non così immediato come alcuni dei suoi lavori più classici (penso a Your Arsenal o a Vauxhall and I), colpisce piuttosto per una certa fantasia negli arrangiamenti e per un indulgere in interludi strumentali dove i vari musicisti si prendono piacevolmente il loro spazio, senza per altro inficiare la scorrevolezza del lavoro. 
Tanti i momenti piacevoli, a partire dall’attacco ritmato di Jim Jim Falls, che cita le celebri cascate australiane all’interno di un testo caustico come ci ha da tempo abituato (“If you’re gonna jump then jump, don’t think about it. If you’re gonna run home and cry, then don’t waste my time. If you’re gonna kill yourself, then for God’s sake, just kill yourself”) e che sfoggia un ritornello davvero efficace.
Bellissimo anche il primo singolo uscito, Billy Don’t You Think They Know, impreziosito dal controcanto di una sempre ispirata Thelma Houston e arricchito da soli di tastiera, chitarra, inserti di fiati, improvvisazioni vocali; un brano dove succede un po’ di tutto, cadenzato nell’incedere ma allo stesso tempo irresistibile, una delle migliori prove dell’ultimo Morrissey. Stessa cosa si può dire per l’altro singolo Knockabout World, ruffiano nel chorus e smaliziato nelle orchestrazioni. 

Interessante anche se di livello leggermente inferiore è Love Is On Its Way Out, ammantata di romantica magniloquenza, dove una patina di elettronica si mischia ad un interludio di piano e a controcanti femminili in sottofondo. 
Un potenziale classico è invece Darling, I Hug a Pillow, che inizia con versi memorabili (“Darling I hug a pillow to replace your face, loving you is a trauma no one else should face”) ma che funziona bene anche dal punto di vista musicale. 
Ottima la title track, con un flavour fifties che nel finale si riempie di chitarre diventando leggermente più heavy; sulla falsariga si muove Truth About Ruth, una ballata sullo stile di Cilla Black e di quelle cose che Morrissey ha imparato ad amare dalla madre, anche se in questo stile la più riuscita è sicuramente What Kind of People Live in These Houses, deliziosa Pop song in chiave acustica. 
Più sperimentale Once I Saw The River Clean, che mescola elettronica a suggestioni Irish e che sembra una sorta di rimpianto del tempo che fu (“Childish mind anticipates, grown up mind consummates”), aiutata dall’andamento onirico con cui si muove e dalle strofe dove l’io narrante si immagina bambino mentre cammina per la strada ora con la nonna, ora con la madre. 
Ancor più inusuale è The Secret of Music, che con i suoi otto minuti e il suo feeling psichedelico, con l’aggiunta di pennate di chitarra e ricami solisti, sembra lontana parente di How Soon is Now; a dispetto del titolo, si risolve nella lapidaria constatazione che “No trombone, no glockenspiel could fill my loneliness tonight”. 
Si chiude con My Hurling Days Are Done, un’altra ballata acustica con inserti orchestrali, un altro episodio pregno di nostalgia, anche se la batteria che entra nella seconda parte ne risolleva un po’ i toni. Qual è il messaggio? Sta citando davvero il popolare sport irlandese come modo per pagare un tributo alle sue origini (non mi risulta comunque che ci abbia mai giocato; non in modo serio, se non altro)? Sta di fatto che gli ultimi versi, in qualunque anno finirà la sua carriera, potrebbero essere utilizzati come ideale epitaffio (“Time will send you an invoice and you’ll pay with your strength and your legs and your sight and your voice. And there’s no one to tell and nowhere to run”). 
Morrissey è tornato e ha ribadito ancora una volta di non voler essere un cane legato alla catena. D’altronde, mentre scriviamo, veniamo a sapere che ha per l’ennesima volta fatto parlare di sé per i suoi comportamenti sopra le righe (no, non vi dico niente, cercate su Google che sono di corsa e questa recensione è fin troppo lunga). Nonostante tutto, credetemi, se l’arte e l’artista non fossero più separati, vivremmo nel peggiore dei mondi possibili. Per cui ascoltiamoci questo disco con la soddisfazione che deriva dal fatto di vedere che Moz è ancora vivo e ha ancora le capacità per scrivere belle canzoni. Tutto il resto sono chiacchiere inutili. 

Tracklist:
01. Jim Jim Falls
02. Love is on its Way Out
03. Bobby, Don’t You Think They Know?
04. I Am Not a Dog On a Chain
05. What Kind of People Live in These Houses?
06. Knockabout World
07. Darling, I Hug a Pillow
08. Once I Saw the River Clean
09. The Truth About Ruth
10. The Secret of Music
11. My Hurling Days Are Done