I N T E R V I S T A


Articolo di Luca Franceschini 

Quattro anni fa il mondo della musica era completamente diverso. Lo streaming non era ancora dominante negli ascolti, il cd era in crisi ma esisteva ancora una qualche velleità di farne sopravvivere la funzione, i Thegiornalisti erano un gruppo Indie solo un po’ più famoso degli altri, la rivoluzione che un disco come “Mainstream” di Calcutta avrebbe innescato era appena agli inizi e il Rap italiano solamente un genere tra gli altri. Nel 2016 i Perturbazione erano nel pieno della svolta Pop, si era rotto il sodalizio con Gigi Giancursi ed Elena Diana, “Le storie che ci raccontiamo” proseguiva nella direzione di “Musica X” ma era di fatto il primo lavoro realizzato con una formazione rimaneggiata e il possibile inizio di un nuovo capitolo. Alla fine si è rivelato essere un semplice lavoro di passaggio, come lo stesso Tommaso Cerasuolo mi ha detto alla fine dell’intervista che state per leggere. Le soluzioni moderne in fase di produzione, con l’arruolamento di un fuoriclasse come Tommaso Colliva, il featuring con un allora nastro nascente come Ghemon, unitamente ad una scrittura ad alti livelli come sempre, non sono serviti a molto: probabilmente il pubblico non era disposto ad accettare i Perturbazione in quella veste, quell’abbandono dei toni agrodolci e delle bedroom songs a la Belle and Sebastian aveva scosso gli animi molto più del previsto. Fu un tour difficile: non molte date e complessivamente meno gente di prima, quando ancora in qualche modo si sfruttava l’onda lunga di Sanremo.

C’è stata una lunga pausa nel mezzo, un cambio di etichetta (Ala Bianca al posto di Mescal) e un disco lungo, forse fin troppo: sono 23 canzoni per 70 minuti di musica, un inevitabile paragone con l’altro monstrum della band, quel “Del nostro tempo rubato” che, guarda un po’, ha festeggiato proprio ora il decimo anniversario. E contemporaneamente un ritorno ad un sound che si potrebbe per comodità definire “delle origini”: non è proprio così, come la band stessa ci ha tenuto a precisare, ma è indubbio che i vecchi fan delusi dai precedenti trascorsi, troveranno più di un motivo di consolazione in questo lavoro.

È un periodo strano, quasi surreale, con i tour sospesi ed un’uscita rimandata di due mesi, quando ancora c’era la speranza che si potesse tornare presto alla normalità. Non sarà così chissà per quanto, fare previsioni non farà altro che renderci frustrati ed ansiosi. Godiamoci “(dis)amore”, che di motivi per farlo ce ne sono parecchi. I Perturbazione oggi vivono in un limbo, non appartengono al passato ma neppure sono così radicati nel presente. In un certo qual modo, il loro curriculum prestigioso non li aiuta: potrà andar bene per chi c’era all’epoca, non per chi si nutre avidamente di tutto ciò che possiede il brivido dell’istante. Ma, ripeto, non è il momento di fare previsioni, bensì di goderci quello che abbiamo e di ringraziare per il fatto che ci sia.

Per cui ecco qui: il giorno prima dell’uscita del disco ho raggiunto per telefono Tommaso Cerasuolo, cantante e colonna portante del quartetto piemontese, gentilissimo e disponibile come sempre.

Bentornati, innanzitutto! Non solo perché è bello vedervi di nuovo ma soprattutto perché avete fatto veramente un bel disco!

Ti ringrazio! Mi fa piacere!

Partiamo da una battuta veloce sulle tempistiche: sareste dovuti uscire a marzo ma l’avete posticipato di due mesi data la situazione…

Per noi il disco e i live sarebbero dovuti essere due elementi strettamente collegati, ed è la ragione per cui abbiamo inizialmente rimandato. Alla fine abbiamo però cercato di essere lucidi: ci sembrava che congelare troppo l’uscita, rimandarla ad oltranza, diventasse una cosa avvilente innanzitutto per noi. Il disco è come un fiore o un frutto, ha un suo tempo di maturazione che ad un certo punto deve per forza compiersi. Quello che ci interessava, con Ala Bianca, è che ci fosse un minimo di rete distributiva, che ci fosse la possibilità di comprarlo fisicamente, perché poi noi siamo cresciuti coi dischi in quel modo lì, ci piace sfogliarli, vederli… ieri abbiamo finalmente stretto le copie in vinile ed è stata una bella sensazione! Ci siamo gustati l’artwork di Matteo Baracco, che è molto giovane ma che ha fatto davvero un lavoro bellissimo, che premia il disco e lo valorizza: in copertina c’è una chiave, che è come l’accesso ad una capsula del tempo dove sono contenuti questi due innamorati che poi diventano disamorati e che cercano di trasmettere un’immagine di verità: che vuol dire che nella loro storia decidono di mettere dentro tutto, non soltanto le cose belle ma anche quelle terribili.

Rimane un po’ di rammarico per avere separato le due dimensioni, no? Tutti noi non vedevamo l’ora di riabbracciarvi sotto i palchi…

Siamo rimasti alla finestra a guardare e appena abbiamo visto che c’era la possibilità di uscire abbiamo deciso di uscire. Le canzoni viaggiano, hanno una loro elasticità, nonostante siano state scritte in un periodo di tempo diverso, possono essere sempre abitate da chi le ascolta, in qualsiasi momento.

Purtroppo i concerti non si possono fare e in questo preciso momento essere troppo ottimisti o pessimisti non ha nessun senso: anche qui stiamo a guardare, cercando di volta in volta di inventarci piccole cose di prossimità e di benessere, piuttosto che di quadra economica, all’interno di una faccenda che è molto più complessa e ha a che fare con tutto quello che questo paese riuscirà a fare per sostenere tutto il settore della cultura. Poi il nostro mondo musicale era particolarmente frazionato, un po’ sfigato e se n’è anche reso conto, ad un certo punto, con l’intuizione che aderire ad associazioni di categoria, riuscire ad essere una voce sola è una cosa piuttosto importante, indipendentemente dal governo sotto cui ci si trova. Però ripeto, questo è un discorso complesso, che riguarda un tempo piuttosto lungo, per cui non abbiamo fatto gli splendidi dicendo: “Le date saranno a novembre!” perché nessuno ha la certezza di come e quando si riuscirà a ripartire.

Meglio non pensarci, in effetti. Tornate a quattro anni di distanza, con un lavoro piuttosto corposo, che rispecchia il formato di “Del nostro tempo rubato”, che usciva esattamente dieci anni fa, anche se musicalmente i due dischi sono diversi. È poi una sorta di “ritorno alle origini”, per quanto possa essere un’espressione abusata, e avete anche cambiato etichetta, visto che avete iniziato un sodalizio con Ala Bianca dopo diversi anni alla Mescal…

Apparentemente sarebbero corsi e ricorsi della storia ma ci vedo più un’evoluzione: come hai detto tu, c’è una somiglianza con “Del nostro tempo rubato”, sia nella lunghezza, sia nell’idea di progettare un disco che sai che sarà interessante anche se non perfetto. Abbiamo riflettuto un po’ e ci siamo resi conto che i nostri lavori migliori erano quelli dove abbiamo rischiato di più, accettando il fatto di non riuscire magari a fare il disco da “dieci siluri”, perfetto in ogni sua parte, ma di fare una cosa che fosse più ricca di spunti e di immaginazione; abbiamo capito che questo tipo di formula era forse più nelle nostre corde e l’abbiamo seguita anche in questo caso. Rispetto a “Del nostro tempo rubato” però, che era un disco dove abbiamo messo dentro tutto quello che avevamo scritto negli ultimi tre anni, qui c’è stato un progetto abbastanza preciso: dopo una stratificazione iniziale dove con Rossano, che è anche coautore dei testi, abbiamo accumulato un bel po’ di materiale, ci siamo accorti che avevamo scritto tanto sull’innamoramento e sul disamoramento, alla luce di uno spettacolo che avevamo fatto con il teatro Stabile di Torino alla fine del 2016, attorno al teatro di Natalia Ginzburg, un’autrice che ha scritto tanto sul tema dell’assenza, a questo elemento così strano, che non c’è per sua definizione ma che in qualche modo influenza tutti, non a caso lo spettacolo l’abbiamo chiamato “Qualcuno che tace”. È come se amore disamore fossero incarnati da questi protagonisti che realizzano l’idea stessa di entrambi i concetti all’interno della sua scrittura, in “Caro Michele” ma anche in tanti altri romanzi.

Come si è svolto, concretamente, il lavoro di composizione e di assemblaggio dei pezzi?

Abbiamo iniziato scrivendo “Io mi domando se eravamo noi”, che è nata proprio dallo spettacolo, più altre due o tre e ad un certo punto ci siamo detti che sarebbe stata una buona idea raccontare tutta la storia cronologicamente, dall’incontro alla convivenza, fino ad arrivare alla fine della storia. È stato come girare un film, in un certo senso: abbiamo immaginato la casa, i protagonisti, ci siamo chiesti dove mettere la cinepresa di volta in volta, quali e quante fossero le voci narranti, perché oltre ai protagonisti ci sono anche varie comparse, che incarnano il ruolo della società, così tanto urbanizzata, che influenza una vita che invece è per sua natura molto domestica, che sembra come tagliata fuori: la cosa strana degli innamorati è che parlano una lingua tutta loro, sembrano un po’ dei rincoglioniti (ride NDA), anche quando si disamorano sono vagamente insopportabili, eppure hanno una frequenza, una lunghezza d’onda tutta speciale.

È così piano piano, canzone per canzone, siamo andati avanti con la storia, identificando per ogni episodio il particolare che avrebbe dovuto narrare. In questo senso è stato anche divertente giocare con canzoni molto piccole, e non perché non venisse il ritornello: canzoni brevi, istantanee, anche da un minuto e mezzo o due. Questo perché potevano fungere da collegamento tra due parti ma anche perché era una voce che aveva bisogno di esprimere un solo concetto, non c’era bisogno di girarci troppo attorno. Questa alternanza di campi, totale e dettaglio, è la forza della scrittura complessiva di questo lavoro. È una cosa nuova per noi ed è quello che secondo me rappresenta un passo in più.

E rispetto al rapporto col passato?

A livello musicale è vero che è una sorta di ritorno sui nostri passi ma con una ricchezza armonica diversa. Cristiano è quello che propone tutte le idee iniziali, da molti anni lavora con i Totò Zingaro, che hanno una radice molto blues e roots e secondo me è una cosa che ci siamo portati con noi, assieme a certe sonorità Jazz. A livello di impianto armonico Cristiano ha fatto un gran lavoro, ha rielaborato anche tante cose della musica popolare italiana, col documentario su Anna Magnani di cui ha curato la colonna sonora (vedi qui la nostra recensione) e penso che queste esperienze siano servite. Io che sono un musicista molto più ignorante (ride NDA), queste influenze le ho sentite: lavorando sui pezzi, sulla melodia che fa la voce mi sono accorto che a volte mi appoggiavo su un terreno nuovo. Poi ci sono sempre gli Smiths e tutte quelle cose che abbiamo noi, il dna è quello però in questo ideale prisma che è il nostro suono ci sono delle facce nuove, ecco.

È un disco che può essere ascoltato tutto di fila però è anche fatto di canzoni fatte e finite, molte delle quali sono potenziali singoli. Non avete voluto fare il disco da dieci siluri però un bel po’ ne avete inanellati lo stesso, mi pare…

(Ride NDA) Non rientrano nel discorso radiofonico attuale, però! Ci rendiamo conto che la moda va per conto suo, tu devi fare la tua strada serpentina e fregartene. C’è una generazione nuova che ha fatto sua, se vuoi volgarizzato, un certo tipo di canzone. Noi siamo fuori da queste dinamiche, facciamo le nostre cose e trovo che sia l’opzione migliore. Questo ha a che fare con le scelte che abbiamo fatto in materia di suono: non volevamo sovraprodurlo, volevamo fare un lavoro di leggerezza, senza quantizzare tutte le batterie, far suonare tutto molto pieno, infarcire di Synth… non ci interessava assecondare il gioco del momento. E poi secondo me è stato molto bravo Paolo Elia Felice. Cristiano ha prodotto tutto il disco ma voleva anche un paio di orecchie nuove sui mix finali. Lui è stato molto rispettoso del nostro lavoro e nello stesso tempo ha permesso ad ogni canzone di suonare al meglio, siamo stati molto fortunati.

È un disco molto leggero ma anche profondo: ci sono tante orchestrazioni, ad esempio. Trovo che in generale vi sia molto equilibrio…

Sì, ci sono delle cose molto minimali, essenziali, alternate ad altre che hanno invece un impianto molto più sinfonico: penso ad esempio a “Il paradiso degli amanti” o a “Io mi domando se eravamo noi”, dove l’arrangiamento di archi l’abbiamo affidato a Fabio De Min (Non voglio che Clara NDA)…

Davvero?

Ci sono corsi e ricorsi in quel pezzo: ci sono i Procol Harum, i quali a loro volta prendono da Bach, è una specie di pietra rotolante della storia della musica (ride NDA). Quando l’abbiamo finita, Cristiano ha detto che ci sentiva dentro degli archi, che si immaginava come un crescendo e allora ha chiesto a Fabio se avesse avuto voglia di orchestrarla lui. Ha fatto davvero un bel lavoro!

A leggere i testi, pur nella complessità della storia (poi magari se mi spieghi come va a finire, perché non è così esplicito) ho avuto l’impressione che quello che volevate dire è che il percorso dell’amore non è scontato, bisogna lavorarci tanto, certe difficoltà sono normali, e che l’innamoramento è solo una fase, poi bisogna costruire…  

Sì, hai colto perfettamente: è come se amore e disamore fossero parte della stessa energia. Non puoi acquistare solo una parte del pacchetto, te lo devi prendere tutto quanto! Io penso che questi due protagonisti si rendano conto che non riescono più a cambiare insieme. Uno dei due, e noi non specifichiamo quale, ha un’avventura che destabilizza tutto e la fine della storia, che è contenuta ne “Le assenze”, dice che la verità per noi può essere soltanto guardarci e vedere tutti i nostri pieni ma anche tutti i nostri vuoti. Se li mettiamo insieme otteniamo un’immagine realistica ed evitiamo anche i rimpianti. Altrimenti,  se guardassimo solo quello che abbiamo nascosto sotto il tappeto o se volessimo vedere solo una versione idealizzata dell’amore, inganneremmo noi stessi e quindi anche quelli a cui stiamo raccontando questa storia…

Sbaglio o adesso canti meglio? Mi pare che tu sia più in confidenza con la tua voce…

(Ride NDA) Penso che sia un cammino! Io sono molto autodidatta, penso di aver fatto un pochino meglio disco dopo disco, soprattutto da “Del nostro tempo rubato” in avanti, piano piano, lavorando tanto sulla voce. Detto questo, continuo ad essere uno che vorrebbe cantare molto di più di quello che poi normalmente fa ma cerco di farlo con maggiore regolarità e disciplina rispetto ai miei esordi, cosa che secondo me ha giovato. Poi mano a mano capisci molto di più rispetto alla voce che hai in rapporto alla scrittura, alla possibilità di interpretare, l’attenzione alla tonalità del pezzo, al fatto di non essere per forza di cose sempre al servizio della chitarra… Perché sai, la scrittura nei gruppi tende ad essere sempre molto chitarristica, certi riff o elementi che suonano bene in una tonalità, si tengono in quella tonalità lì, però poi in realtà la scrittura della musica per così dire “popolare” deve essere basata molto sulle capacità vocali del cantante. Quindi spostare la tonalità dei brani perdendo sicuramente qualche armonico o nota interessante della chitarra ma dando la possibilità alla voce di essere nel pieno della sua espressività, è un accorgimento che abbiamo imparato nel tempo, anche attraverso i nostri errori. Io mi continuo a sentire un pischello però, invecchiando mi viene sempre più voglia di tornare a scuola, sia per imparare a scrivere meglio sia per cantare! Mi piacerebbe stare a scuola tutto il giorno: vedo i miei figli che si rompono e in fondo penso che sia sbagliata l’età in cui ci costringono a stare seduti su un banco!

È interessante, perché si dà per scontato che ci sia una fase di splendore di una band che coincide con gli inizi e poi si vada avanti di mestiere. Invece è bello che una band dopo venti, trent’anni possa ancora mettersi in gioco con entusiasmo. Voi l’avete fatto, secondo me: ognuno poi dirà la sua ma sicuramente la mia impressione è che ci abbiate provato a migliorare, a superarvi…

Grazie! Dici una cosa che mi fa davvero molto piacere!

Una delle mie preferite è “Il ragù”, per come guarda al tema della morte con intimità e rispetto: mi sembra una delle cose più interessanti che abbiate mai fatto, a livello di scrittura.

È Rossano che ha buttato giù il bozzetto iniziale. Quando l’ho visto ho pensato tanto a Carver, quel tipo di quotidianità molto ordinaria dentro la quale irrompe l’idea della morte, della fine delle cose e per questi protagonisti è un po’ come la perdita dell’innocenza perché sono nella fase ascendente di tutto il loro rapporto. Mi è piaciuto molto come, a partire dall’idea iniziale, abbiamo poi pensato alle varie immagini da mettere in scena: da che paese far provenire la vicina, se doveva esserci una coperta o un maglione, ecc. Il ragù invece era subito lì, l’aveva scelto Rossano. Anche secondo me è una cosa abbastanza nuova nel nostro modo di scrivere…

Ma quindi la storia non è vera?

Lo è ma non so esattamente da dove Rossano l’abbia presa, dovrei chiederglielo. Noi attingiamo molto da quello che sentiamo in giro, da quello che ci viene raccontato. Ad esempio, ne “Il paradiso degli amanti” si parte con lei (ma non si sa di preciso) che canta nella doccia una canzone che non fa parte del genere di musica che normalmente ascoltano come coppia. Loro abitualmente ascoltano cose che sono sempre quelle e, improvvisamente, arriva una canzone mai sentita, che potrebbe anche essere un brano It Pop (ride NDA)! Questo me l’ha proprio raccontata un amico, che aveva avuto il primo sospetto che la sua compagna avesse un’altra storia proprio da un episodio di questo tipo. Quindi, per ritornare alla domanda, non c’è nulla di espressamente autobiografico però, avendo 47 anni, ne abbiamo passati di amori e disamori, hai voglia! Nessuno dei nostri nuclei famigliari è mai passato attraverso questo tipo di terremoto ma sapevamo com’è e sapevamo cosa andare a rubare dalle vite attorno a noi, oltre che dalla buona letteratura che c’è a disposizione su questo argomento!

In “Dieci fazzolettini” invece c’è un correlativo oggettivo, come direbbe Eliot, che serve da filo conduttore ad un’esistenza che va avanti ma con certe costanti che rimangono, come l’esigenza di piangere oppure i figli, che fanno in qualche modo lo stesso percorso che tu hai fatto alla loro età, ecc. E poi avete usato la parola “Perturbazione” nel testo!

Sì, anche “Tommaso”. Diciamo che lì abbiamo giocato molto su queste cose, ci siamo divertiti a fare un pezzo giocoso, che prende un oggetto e attraverso quello racconta un po’ tutte le fasi della vita. Ho scoperto poi che i fazzolettini nel pacchetto sono nove, non dieci (risate NDA)! Me lo ha fatto notare Baracco (il bassista NDA), io davo per scontato che fossero dieci: sai, sistema metrico decimale, abbiamo dieci dita (risate NDA)…

Prima di lasciarti andare mi piacerebbe sapere come vedi adesso “Musica X” e ”Le storie che ci raccontiamo”, visto che quella fase del vostro percorso è ormai conclusa…

“Musica X” lo considero un disco molto completo, con una precisa idea, lo trovo ancora del tutto a fuoco. “Le storie che ci raccontiamo” contiene la title track che secondo me è una delle cose più belle che abbiamo mai scritto ma è un disco in qualche modo di passaggio, lo abbiamo fatto due anni dopo che ci eravamo modellati in un certo modo, non ha un’anima precisa. È un disco che è stato necessario ma ho proprio la sensazione che il quadro complessivo non sia ben definito. Vero però che al suo interno ha delle canzoni bellissime per cui gli voglio bene lo stesso! Sai, nelle fasi in cui stai cambiando non riesci mai a capire tutto sempre…