R E C E N S I O N E


Articolo di Stefania D’Egidio

Inutile dire che siamo al cospetto di uno dei più grandi cantautori viventi, oltre ad essere un chitarrista di un altro pianeta: ne so qualcosa io che, pur di vederlo, nel 2016 mi sono sparata non so quante ore in piedi sotto un sole assassino, rischiando anche di farmi sequestrare la reflex dalla security, ma questa è un’altra storia…
Tutto ciò che ha fatto è entrato più o meno nella leggenda e non poteva essere altrimenti per Homegrown, concepito tra il 1974 e il 1975, registrato in analogico come si usava allora, ma mai venuto alla luce fino a qualche giorno fa, il 19 giugno, tanto che sembrava destinato a restare una chimera.

Erano gli anni delle tossicodipendenze, Neil Young aveva appena perso l’amico fraterno Danny Whitten, chitarrista dei Crazy Horse, e il fidato rodie Bruce Berry, entrambi morti di overdose, il figlio Zeke aveva problemi di salute e, ciliegina sulla torta, era in corso la separazione dalla moglie, l’attrice Carrie Snodgress, ma erano anche anni prolifici dal punto di vista musicale: il rock’n’roll la faceva da padrone, c’era poco spazio nelle classifiche per altri generi. Ciò nonostante Young è una scheggia impazzita, esula da ogni schema, è al di fuori di ogni controllo, praticamente sforna pezzi nuovi quasi tutti i giorni da quando ha scoperto i potenti mezzi del home recording ed ecco che, quello che doveva essere la naturale prosecuzione di Harvest si trasforma in un album a forte connotazione intimistica, quasi un’autobiografia a tinte folk-country, fatta eccezione per alcuni brani.
Homegrown è un lavoro pieno di dolore e di rabbia, trasuda tutto il tormento di quei giorni che pian piano si trasforma in un racconto catartico, forse per questo Neil aspetterà così tanto a pubblicarlo; lui stesso ha raccontato che era lì, nascosto in un cassetto, pronto a venir fuori una volta passata la tempesta, una volta metabolizzata la perdita…certo 46 anni sono tanti anche per un amore grandissimo, ma comunque, come si è soliti dire: “meglio tardi che mai”!
Copertina dal sapore bucolico, l’album dura poco più di 30 minuti per un totale di dodici pezzi, cinque dei quali (Love is A Rose, Homegrown, White Line, Little Wing e Star of Bethlehem) erano già apparsi in altre pubblicazioni o suonati dal vivo, ben tre portano il nome di paesi (Mexico, Florida e Kansas), forse perché nel periodo in cui sono stati registrati si era sempre in tour…
Apre la bellissima Separate Ways, una ballad acustica che si impreziosisce della presenza di Ben Keith alla pedal steel guitar, di Levon Helm alla batteria e di Tim Drummond al basso. Dal testo si capisce quale sarà il leit motiv di tutto l’album: “Me for me/you for you/happiness is never through/it’s only a change of plan/and that is nothing new”, insomma non le manda proprio a dire alla sua ex…
Seguono: Try, pezzo country dal testo ancora struggente, che parla di occasioni perse, con ai cori la meravigliosa voce di Emmylou Harris e suonata già dal vivo nel tour 2007/2008, Mexico, una delle mie preferite, con Neil al pianoforte , poco più di 2 minuti di atmosfere sognanti di fuga, e Love is A Rose.
La title track ha un tema più allegro, dopo tanto dolore l’artista scopra i vantaggi della coltivazione in casa di “erbe medicinali”, tema riaffrontato anche nel Farm Aid, mentre della sesta traccia, Florida, secondo me si poteva fare anche a meno: niente musica, ma soltanto il racconto delirante di una vicenda di quotidiana follia in una non meglio precisata località della Florida, con in sottofondo una specie di sibilo prodotto, a quanto pare, da un bicchiere di vino.
E dopo la sbronza il racconto di un rapporto occasionale, su arrangiamento acustico, in Kansas.
L’ottavo pezzo, We Don’t Smoke it Anymore, è un bel blues da locale fumoso in quel di Nashville con un basso prepotente in primo piano; ci si avvia verso il finale e l’atmosfera si fa rovente, dapprima con White Lines, frutto di una collaborazione con Robbie Robertson, poi con la rockeggiante Vacancy: tre brani da fuochi d’artificio che introducono ad un finale più calmo, con Little Wing, melodia onirica da armonica, e Star of Bethlehem, pezzo country folk che vede ancora l’accompagnamento della Harris ai cori.
Una chiusura perfetta in cui il dolore e la rabbia dei brani precedenti si sono trasformati in dolci ricordi.
L’anno ‘74-’75 sarà stato pure un periodo nero come la notte più buia per Neil, ma sicuramente rischiarato da sprazzi di profonda ispirazione, quel che ne risulta infatti è un mix perfetto tra dimensione acustica ed elettricità, fra intimità e potenza, come tutta la sua produzione del resto.
L’unico difetto dell’album è che dura troppo poco, ma, come promesso sul suo sito, Young tirerà fuori dall’archivio nei prossimi mesi altre tre perle : Arch Vol.2 in uscita il 24 luglio, Rust Bucket il 16 ottobre e Young Shakespeare il 27 novembre, non ci resta che attendere.

Tracklist:
01. Separate Ways
02. Try
03. Mexico
04. Love is A Rose
05. Homegrown
06. Florida
07. Kansas
08. We Don’t Smoke it Anymore
09. White Lines
10. Vacancy
11. Little Wing
12. Star of Bethlehem