R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Keith Jarrett: piano.
Qualche giorno fa ho ricevuto un messaggio da James Cook, esploratore e navigatore, che sulla plancia di Off Topic Magazine, tiene sempre fermo lo sguardo all’orizzonte. Il messaggio era laconico: “Te la senti?” Io ho risposto un po’ incoscientemente di sì, anche se sapevo che il veliero che James aveva scrutato all’orizzonte era davvero un pezzo da novanta. Ma ho considerato fosse un dovere morale, se non proprio un “imperativo categorico”, scrivere qualcosa dell’Ammiraglio Jarrett Keith da Allentown (Pennsylvania). E allora cimentiamoci nella difficile impresa di raccontare il non-raccontabile, di descrivere l’indescrivibile. Il Budapest Concert, registrato nel 2016 per l’etichetta ECM, nella “Béla Bartók National Concert Hall” di Budapest, è una sorta di ritorno a casa (ricordiamo che la famiglia Jarrett è di lontane origini ungheresi), ma soprattutto una “suite” di una metamorfosi globalizzante dove jazz, musica colta, folk, blues e classica confluiscono in qualcosa che è molto di più, delle più o meno consuete ibridazioni e/o contaminazioni, qui siamo molto oltre. 

Il Budapest Concert è composto da quattordici parti rigorosamente numerate in cifre romane, tra le quali tre pezzi che si intitolano It’s a Lonesome Old Town, struggente e malinconica e Answer Me My Love,  quasi una precisazione introspettiva, una domanda e una risposta sul senso della musica che il grande compositore pone e dà a se stesso. Con Jarrett ci si toglie subito dall’impaccio del dover commentare i titoli cercando di arrampicarsi sugli specchi; i suoi titoli non sono i commenti della musica, né la sua musica è il tentativo di definire i titoli, non è quindi necessario cercare di uscire dal solito impasse semantico e linguistico. Quando la musica è un blues, Jarrett la intitola Part XII Blues, senza necessità di ricami lessicali o semantici.
Le dodici parti più due del concerto, sono in realtà un tutt’uno di rara perfezione e l’insieme è certamente di più, molto di più, della somma delle parti. Potremmo nominare tutti i pezzi, in un ludico tentativo di ricomporre questo magnifico e magico puzzle: I solenne e scomposta, II rarefatta e impressionista, III dinamica e profonda, IV nostalgica ed evocativa, V sfuggente ed elegiaca, VI ritmata e sequenziale, VII strutturata e completa, VIII polifonica e mistica, IX libera e puntillista, X enigmatica e affermativa, XI meditativa e poetica, XII blues, XIII solitaria e solipsistica, XIV meditativa e dubitativa. E adesso che il gioco lo abbiamo fatto, conviene prendere il puzzle e gettarlo per aria, poiché solo ascolto è sufficiente a vanificare ogni tentativo di descrizione.
Lui è il Jarrett di sempre, tutt’uno con il pianoforte, sempre pronto ad interloquire con esso anche con la voce o lo schioccare delle dita, un rapporto tremendamente intellettuale e pure così naturalmente fisico, un suono che sembra la voce dello strumento e Jarrett che sembra il suono del piano stesso. E allora smettete di leggere, procuratevi il disco e seguite il mio consiglio: “Da ascoltarsi nel più assoluto silenzio per delle immobilità seriose”, come disse con ironia ed acutezza Erik Satie di una sua celeberrima composizione.

Tracklist:
01. Part I
02. Part II
03. Part III
04. Part IV
05. Part V
06. Part VI
07. Part VII
08. Part VIII
09. Part IX
10. Part X
11. Part XI
12. Part XII – Blues
13. It’s A Lonesome Old Town
14. Answer Me, My Love