R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

È uscito di recente per l’etichetta Auand Records l’ultimo lavoro di Matteo Bortone, in sestetto, un gruppo originario, un “combo” trasformato poi, su sollecitazione di Enrico Bettinello, per la partecipazione ad alcuni festival, tra i quali NovaraJazz. Matteo Bortone è un bassista, compositore, jazzista e qualcos’altro. Ecco, il disco è confezionato proprio con un pizzico di jazz e molto di “qualcos’altro” ed in questo sta la sua originalità. Se devo essere sincero fino in fondo, e su queste pagine lo sono sempre stato, io continuo a preferire il jazz al “qualcos’altro”, perché ho sempre considerato il jazz un “qualcos’altro” di suo, senza bisogno eccessivo di sconfinamenti e, non tanto per le difficoltà classificatorie, ma solo perché il “qualcos’altro” mi sembra sempre un tributo da pagare per farsi accettare, anche al di fuori dell’ambito jazz, uno strizzare l’occhio alla musica “da consumare”, per parafrasare una nota teoria di Riccardo Bertoncelli.

Poi però bisogna mettere da parte principi e teorie e dedicarsi all’ascolto. Allora tutto può essere ribaltato, come nel caso di questo bellissimo e raffinato No Land’s. Sì, la contaminazione è evidente e pervade un po’ tutte le dieci tracce dell’album, ma non v’è in essa traccia di ammiccamenti di comodo, di compromessi al ribasso. Matteo Bortone è un compositore puro, un serio e severo ricercatore e poco importa se compaiono voci manipolate, un “rhodes” o una chitarra elettrica. Tutto è strumento di ricerca, mai banale, mai scontata. Lo si comprende già in apertura (io ascolto i dischi partendo dal fondo o in maniera casuale),  con Volverse Lugar (cioè “diventare luogo”), una ballata quasi recitata dai toni di una malinconia riposta e meditativa. Tornare in un luogo significa sempre tornarci in un modo diverso, così come Bortone sembra tornare a meditare su una sorta di “non appartenenza”, che in letteratura è assimilabile a quella “topografia dell’indefinito” che fu al centro di un favoloso romanzo del premio Nobel Peter Handke, intitolato “Il mio anno nella baia di nessuno”. Con Ichi Go Ichi, il sax di Antonin-Tri Hoang ci fa ritornare in una temperie più consueta per le atmosfere jazz, ma successivamente la un po’ “dark” A Spectral Fairytale fa subito scompigliare le carte, anche grazie all’elettronica buttata lì come un salutare disturbo. E poi subito dopo, ancora toni da conciliazione amichevole con una melodia sempre pronta alla decomposizione. La modulare e simmetrica Screens che sembra uscita da un laboratorio sperimentale del suono e poi ancora Drumps, introdotta dalle bacchette della batteria di Ariel Tesser e raccontata poi dalla chitarra di Francesco Diodati. E poi ognuno ha le sue predilezioni dettate dal gusto, dalla cultura musicale, dall’introspezione personale, e allora ascoltare In Aliore Loco, mi ha letteralmente turbato e saziato, con quel sussurro infinito del piano di Yannick Lestra, così cadenzato e sospeso nel vuoto, disegnato dalle spazzole della batteria di Tesser. E infine gli ultimi tre minuti di Future Past, che potrei annoverare tra le cose più belle sentite ultimamente. Insieme a Matteo Bortone (basso, electronics, glockenspiel, voci), mi hanno magnificamente confuso le idee Julien Pontvianne (sax tenore e clarinetto), e i già citati Francesco Diodati (chitarra elettrica), Antonin-Tri Hoand (sax alto e clarinetti) Ariel Tesser (batteria) e Yannick Lestra (piano, rhoder, synth). No Land’s non significa non avere appartenenza, significa piuttosto appartenere a quell’immenso territorio della ricerca e della scoperta che mai finiremo di esplorare.

Tracklist:
01 Delta
02 Dougie Jones
03 FuturePast
04 In Aliore Loco
05 Dumps
06 Screens
07 Shapeshifter
08 A Spectral Fairytale
09 Ichi Go Ichi E
10 Volverse Lugar