I N T E R V I S T A
Articolo di Antonio Sebastianelli
1999. Un anno cruciale per il sottoscritto, sia dal punto di vista musicale che personale, capace di evocare un’onda lunga di sensazioni ed emozioni che non si è ancora spenta. Lo stesso anno, incidentalmente ma neanche troppo, debuttava quello che sarebbe diventato uno dei cantautori più raffinati e significativi della canzone italiana: Umberto Maria Giardini in arte Moltheni. In grado di restituire l’intensità di personaggi come Nick Drake e Tenco, ma al contempo di incidere la stessa materia musicale sino a renderla qualcosa di nuovo, personale e unico. Un’esperienza artistica e umana durata dieci anni che oggi trova degna conclusione e quadratura del cerchio con questo ultimo album Senza Eredità. Raccolta di canzoni “perdute” amate e richieste dal pubblico ma che sinora non avevano trovato collocazione su un album ufficiale. Dopo la fine del progetto Moltheni, nel 2009, il nostro ha pubblicato con il suo vero nome ben quattro album; dall’intenso La Dieta dell’Imperatrice nel 2012 al furore elettrico di Forma Mentis dello scorso anno.
Senza Eredità si rivela sin dal primo ascolto album assolutamente non frammentario che trova nella diversità e nella varietà di stile il suo punto di forza. Si parte con il pezzo più bello per chi scrive: La Mia Libertà, sospesa tra incanto e amarezza prima che il refrain spalanchi le porte a una melodia antica e moderna al contempo. Indimenticabile. Ieri il primo singolo, ancora un’oasi di piacevolezza melodica, seguita a breve giro da 1983 acquarello sospeso a mezz’aria che si bagna in placide acque nickdrakeiane. Il quinto Malumore e Se Puoi Ardi Per Me sembrano già presagire l’evoluzione in UMG del decennio successivo. Elettriche e viscerali, capaci di catturare l’ascoltatore nella sua ragnatela di spleen romantico e feroce. Prima del congedo, con la mestizia notturna di Tutte Quelle Cose Che non ho Fatto in Tempo a Dirti, c’è ancora spazio per Nere Geometrie Paterne e Spavaldo, perle acustiche senza tempo.
Abbiamo contattato Umberto per parlarci del nuovo disco, di quella che è stata a posteriori l’esperienza e il lascito di Moltheni ma anche del futuro, soprattutto come Stella Maris (il gruppo fondato con Ugo Cappadonia e Gianluca Bartolo de Il Pan Del Diavolo e titolari dello splendido e omonimo album del 2017) che nel 2021 dovrebbero regalarci il loro secondo lavoro sulla lunga distanza.
Come nasce questo nuovo progetto a nome Moltheni e perché hai sentito il bisogno adesso, dopo dieci anni, di chiudere il cerchio con questo album?
Questo nuovo e presumibile definitivo capitolo a firma Moltheni, nasce dalle numerosissime richieste arrivate negli ultimi sei/sette anni, sia da parte dei fans che dalla rete, debbo dire in maniera sempre molto corretta, chiedevano dove fossero finiti i tantissimi brani suonati dal vivo e mai pubblicati, nonché tutti quelli dimenticati nei capitoli incompiuti (ad esempio Forma Mentis del 2002) e in generale dell’intera saga Moltheni. La mia consapevolezza del “cerchio non chiuso” definitivamente, esisteva da molto tempo, ma solo circa due anni fa ho voluto riprendere veramente il discorso, accontentando in primis gli affezionati ma anche togliendomi un ultimo sassolino dalla scarpa che mi infastidiva. Onestamente il pretesto di questo ultimo lavoro, mi ha regalato la possibilità di riabbracciare in studio tanti amici che furono determinanti per la crescita di Moltheni, quindi sono particolarmente felice anche per questo, ma anche i nuovi ospiti non sono stati da meno, tutto è filato liscio come speravo e il risultato si è materializzato perfetto.
Ricordo che all’epoca del primo disco come Umberto Maria Giardini, nel 2012, avevi citato Anna Calvi come ispirazione per il nuovo percorso artistico. Ami ancora la sua musica e che artista oggi (anche extra musicale) riesci ancora a colpirti, sedurti e in un certo modo influenzarti?
Anna, artisticamente parlando, è parte di me. Quando la conobbi era giovanissima e pressoché sconosciuta; ebbi il privilegio di incontrarla e parlarci tante volte. Si strinse con lei e Daniel M.Wood un’amicizia semplice e diretta, sia nei soundcheck, che nei backstage, che via mail. Tantissimi furono i consigli che mi regalò nei mesi prima di entrare in studio per la registrazione del la Dieta dell’imperatrice, album che assieme a Protestantesima riflette quelle caratteristiche di suono e colori. Tuttavia, ogni ciclo discografico che mi appartiene come una spugna assorbe umori ed emozioni che mi sfiorano i quei determinati momenti. Chi è musicista lo sa, tutto può e deve influenzarsi anche dall’esterno. Ciò accade anche alle rockstar internazionali. Una volta in un backstage al Rolling Stone di Milano, senza averglielo chiesto, Beck (ubriachissimo con parmigiano in mano e un bicchiere di spumante) mi disse che il nuovo album “Odelay” era figlio legittimo dei Beastie Boys. Riflettei molto su questa affermazione, e pensai che ogni cosa in fondo deriva da un’altra, ed è meraviglioso.
Perché Senza Eredità? Stai parlando nello specifico della musica di Moltheni o più generalmente di un modo di pensare ma anche di fruire la musica che oggi sembra non esistere più?
Il titolo di questo album-raccolta è significativo e vuole rappresentare una sorte di testamento. Non tanto per il fatto che oramai non sono più giovanissimo e quindi ho artisticamente gli anni contati, ma quanto per il presupposto secondo il quale, il progetto Moltheni non ha un erede. Questa mia affermazione non deve essere in alcun modo fraintesa, poiché non sottintende assolutamente che nessuno potrà mai ripetere le mie modeste gesta, anzi. Significa semplicemente che Moltheni è per naturalezza ciclica e temporale, qualcosa che appartiene al passato e che difficilmente si ripeterà, anche a causa delle sue caratteristiche, fatte di semplicità e di significati poeticamente sorpassati. Oggi i giovani ascoltano altro, quel tipo di schiettezza e romanticità adopera un altro linguaggio, ne migliore ne peggiore, semplicemente diverso. Senza eredità sottolinea questo.
Ti seguo su Facebook e sono rimasto piacevolmente colpito da uno degli ultimi post in cui racconti la genesi dell’album. Le canzoni, dici, esistono da tempo e alcune saranno escluse dalla tracklist finale. In che modo hai scelto quali escludere? Troveranno un giorno un’altra collocazione?
Ho per forza di cose dovuto fare una sorte di selezione, anche alla luce del fatto che, non ho mai amato i dischi troppo lunghi. All’appello mancano un’altra decina di brani (se ben ricordo nove) ma credo sia un dettaglio poco importante. Se troveranno un giorno un’altra collocazione? Non lo so, non mi pongo il problema.
Come rivedi quegli anni? Cos’è cambiato?
È cambiato molto, ma trovo che siano discorsi profumati di qualunquismo, che riflettono quel sapore che sta nella bocca di chi è invecchiato, che con malinconia ricorda un tempo che non c’è più. La mia onestà intellettuale non mi permette di dire bugie; personalmente sono felice di aver vissuto e masticato quegli anni con foga e attenta consapevolezza. Ho perso molte incredibili occasioni, ma d’altra parte è così che doveva andare, quindi zero rimpianti. Ho sempre dimostrato molta diffidenza verso coloro che mi dicevano cosa e come fare le cose, e in quell’epoca se volevi fare un salto di qualità, dovevi ubbidire alle major. Ho visto colleghi di lavoro accettare compromessi senza senso, riducendosi ad artisti tappetini, il mio Dna anarchico da cane sciolto, non mi ha mai permesso di assecondare certi criteri.
Ci puoi raccontare qualcosa sulla splendida cover dell’album? Hai cominciato come batterista se non erro e infatti in centro, in primo piano, ti vediamo giovanissimo con tamburo e bacchette…
Ho voluto fare una copertina diversa, con un collage “non sense”. Il tamburino al centro sono io, non solo per i miei trascorsi giovanili come batterista, ma quanto per conducente della banda, che passa attraverso gli anni della mia vita, la famiglia, l’adolescenza mistica, i miei fratellini mai nati, i condizionamenti della società civile, il lavoro, il rifiuto verso le ingiustizie vissute.
Il disco copre un range emozionale e musicale molto vasto. Al suo interno sento Moltheni ma anche Umg e mille altre cose. Ci sono ancora generi che desideri esplorare, qualcosa che non hai fatto e senti di dover provare in futuro?
Non mi sono mai posto un limite. La musica e l’arte in genere corrispondono all’infinito. Mi ha sempre affascinato il mondo legato ad un certo tipo di elettronica soprattutto alle esperienze del maestro Berio, dai Pan Sonic e alla sua mente Mika Vainio, agli Stars of the Lid di Adam Wiltzie. Non posso poi non citare tutto ciò che nella sua infinita carriera ha prodotto Jim O’Rourke, mio idolo indiscusso da sempre. Purtroppo, in Italia non è facile intercettare menti e musicisti che fanno della ricerca il loro scopo di vita. Esistono ricercatori del suono come Adriano Viterbini, Massimo Carozzi e altri che rappresentano un’autentica élite del genere, ma io confesso, non mi sono mai avventurato in mondi sonori dove non ci fossero strumenti classici.
Come racconteresti questo disco a un giovane che non ha mai ascoltato la tua musica prima?
Gli direi prima di consegnarmi il cellulare, poi gli racconterei di come era il mondo vent’anni fa.
Cosa ti spinge dopo vent’anni sulla scena? Al di là dell’amore per la musica. È una mia sensazione o c’è sempre meno spazio per artisti come te, capaci di plasmare una musica personale e che restituisca anche nei momenti più bui bellezza, forza, grazia, non adagiandosi su facili cliché italioti o esteri?
Innanzitutto, io non mi sento parte di nessuna scena, anche per il fatto che, una scena oggi non c’è. Tutto si è mischiato frettolosamente, e il caos condizionato da madre rete non permette e non permetterà più distinzioni di genere. Secondariamente non mi pongo nessuna domanda, perché non esiste più nessuna risposta. Non mi sfiora neppure lontanamente il dubbio se la mia musica goda o no ancora di spazio. Chi produce musica jazz, musica sperimentale o classica … allora cosa dovrebbe fare? Prendere una bomboletta spray e iniziare a reppare per le periferie di Quarto Oggiaro? Lo spazio e la visibilità che determinati generi musicali hanno o avranno è solamente un fattore culturale. In Inghilterra come negli USA piuttosto che in Australia e in Canada si suoneranno sempre le chitarre, e il bel canto non morirà mai, anche in fasi di crisi generazionali come quella degli ultimi anni. Nick Drake è immortale, Eminem no.
Cosa ci aspetta in futuro dopo la conclusione di questo ultimo capitolo? Ho apprezzato moltissimo il primo album degli Stella Maris, avrà un seguito?
Stella Maris sarà al 100% la mia prossima uscita, presumo e spero nell’autunno prossimo. I brani che ho finito di scrivere sono straordinari e attendono solo di essere registrati. Preservo in me aspettative molto alte per quello che prevedo sarà un disco ispiratissimo e importante per la discografia italiana. Poi la macchina delle collaborazioni è sempre aperta e in moto accelerato. A questo debbo aggiungere la produzione di un cantautore molto promettente a cui a breve lavorerò, quindi anche il 2021 sarà un anno di lavoro, silenzioso ma non per questo muto.
Per concludere: un momento (o più di uno) a cui sei più legato dell’avventura umana e artistica a nome Moltheni.
La carriera Moltheni è durata solo dieci anni, ma sono stati anni concentrati sotto ogni punto di vista. Ricordo innumerevoli episodi, i musicisti che si sono succeduti, le registrazioni in studio, i tour, i produttori, i fonici, le vicende, gli episodi divertenti e quelli drammatici. Il ricordo più bello è in assoluto legato ai due anni trascorsi tra Bologna e Catania, ospite di Francesco Virlinzi e di Carmen Consoli, che assieme alla sua splendida famiglia mi ospitavano a casa loro. Io ero alle prime armi e ingenuo verso quel mondo discografico che poi risultò ai miei occhi estremamente ipocrita e noioso. Poi Sanremo dove mi divertii tantissimo, toccando con mano l’ennesima faccia della cultura trash italiana popolare. Ogni ricordo, anche degli anni successivi lo custodisco con molto amore, ma la consapevolezza che tutto passa e tutto si trasforma mi rende ugualmente felice e sereno. Prima o poi tutto finisce, ed è solo una fortuna.
Photo Credits © Avida Dollars (@nsfilmphoto)
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