C I N E M A


Articolo di Silvia Folatti

– Se non avessi fatto il musicista cosa avresti fatto?
– Non lo so, un lavoro qualunque… L’imbianchino.
– Perché?
– Perché amo i colori. Soprattutto il bianco.
Lucio è così (i due amici che lo ricordano nel film ne parlano al presente perché è come se lui fosse ancora lì con loro: una volta Gianni Morandi disse che si aspettava di vederlo rispuntare da un momento all’altro dicendo di essere stato in Sud America): quando pensi che dica la verità ti spiazza e non sai se ti ha svelato un segreto o ti ha preso bonariamente in giro fin dall’inizio. Il film di Pietro Marcello è un viaggio a ritroso nel tempo che narra la vicenda umana e artistica di Lucio Dalla e un pezzo di Storia del nostro paese, con le trasformazioni fisiche, sociali e culturali dal dopoguerra in poi che si snodano sotto i nostri occhi grazie a un prezioso lavoro di ricostruzione di materiali di archivio, anche inediti, sapientemente modulati in accordo con le canzoni di Lucio e la sua storia personale e pubblica.

Chi era davvero questo ex bambino prodigio, come lui stesso si definisce, che già a sei o sette anni amava salire sul palco e spendersi senza riserve con la passione e l’estro che tutti, anche chi non lo ama, gli riconoscono? “Lucio era inondato dalla vita ma non se ne faceva travolgere passivamente, anzi restituiva poesia, era sedotto da tutto quello che aveva intorno e seduceva a sua volta con la sua instancabile creatività. Lui era movimento, con lo sguardo sempre attento e sensibile alle cose e alle persone, soprattutto quelle molto diverse da lui, per le quali nutriva sempre rispetto, stupore e ammirazione” – così ci racconta, emozionato e emozionante, Stefano Bonaga, uno degli amici d’infanzia e di una vita di Lucio, in un dialogo intrigante, tenero e appassionante fra lui e il manager più longevo del cantautore, Umberto Righi detto Tobia, che lui stesso scelse agli esordi e a cui un giorno disse, inaspettatamente: “Voglio che tu mi faccia da manager. Non importa se non lo sei di professione, io mi fido solo di te.” Se ne andò e poi tornò indietro per precisare: “Ah, guarda che non ho una lira.” Così ebbe inizio l’avventura incredibile, all’inizio faticosa e irta di difficoltà e poi appagante e ricca di successi e incontri strabilianti dei due amici nel magico ma durissimo mondo della musica e della discografia (fece perfino una puntatina dal mago Zurlì allo Zecchino d’oro accompagnato dalla madre, una chicca!), che a un certo punto arruolarono anche un poeta del calibro di Roberto Roversi, autore dei testi di Lucio che per anni si dedicò “solo” alle musiche abbracciando incondizionatamente le liriche di questo autore prolifico ed esigente, dall’etica e il rigore assoluti. A lui Lucio deve la sua svolta decisiva e la felice intuizione di cominciare a scrivere i testi da solo, da lui imparò la dedizione, la disciplina, la cura di rivestire le sue musiche con abiti fatti su misura, proprio come quelli che indossava: originali, mai banali, che comunicavano la sua visione del mondo, la sua anima, la sua natura più autentica. Lucio che ha avuto momenti bui e porte sbattute in faccia ma riusciva a godersi anche “il delizioso sapore dell’insuccesso”. Aveva iniziato come clarinettista e suonava jazz improvvisando: ci svela che questo tipo di musica non poteva piacere in Italia perché non era nelle corde e nella cultura della gente ma soltanto nella testa, a livello razionale, non istintivo. Quindi decise di portarsi il jazz come bagaglio tecnico ma abbracciò la musica che la gente poteva apprezzare e amare con immediatezza. Anche se poi l’abituò a seguire il suo percorso personalissimo e ad acclimatarsi ai testi tutt’altro che immediati di Roversi prima e suoi in seguito.

Questo film è emozionante e istruttivo, nel senso meno serioso del termine: personalmente non conoscevo alcune canzoni degli esordi che ho trovato bellissime, sorprendenti, dense di significato e passione per la vita, il suo paese, le persone, soprattutto quelle più fragili, disorientate, diverse. Diverse da chi? Dalla massa, da ciò che gli altri vorrebbero che tu sia, da ciò che tu ti senti obbligato o condizionato a essere, che ti allontana dalla tua essenza e non permette di esprimere la tua personalità, il tuo mondo interiore, la tua purezza selvatica. Ci sono alcuni momenti nelle interviste a Lucio in cui questa spontaneità candida e ribelle sembra scaturire naturalmente da quegli occhi impertinentemente dolci, che trasmettono un amore per la vita infinito che abbraccia il mondo e un’inquietudine mai sopita, molla per conoscere gli altri che si condensa nel suo lascito spirituale: “Non si conosce mai abbastanza una persona da poterla giudicare fino in fondo”.