R E C E N S I O N E
Recensione di Mario Grella
Lo scorso dieci settembre è uscito Piranha per l’etichetta Habitable Records, un progetto nato nel 2017 con Federico Calcagno ai clarinetti, Filippo Rinaldo al pianoforte e Stefano Grasso alla batteria e vibrafono. Piranha è un esperimento di polistrumentismo e, come ormai è quasi consuetudine nel jazz, un esercizio di ibridazione. È cosa nota che i confini tra generi musicali vadano stretti sia ai jazzisti che ai musicisti di tutti i generi musicali, anzi potremmo ormai considerarli “ex-generi”. Persino nella musica classica, negli ultimi anni, abbiamo assistito a contaminazioni, sconfinamenti, intrusioni. E se volete il mio parere, non sempre con risultati fausti; sembra però che questo ormai non si possa più dire, pena essere tacciati di conservatorismo. Il jazz è però un ambito diverso, dove la sperimentazione è sempre stata di casa e dove l’improvvisazione e lo sconfinamento sono l’essenza stessa di quella musica, almeno del jazz venuto dopo il cosiddetto “free jazz”. Questo ben amalgamato trio è particolarmente a suo agio nell’ibridare le composizioni, ma senza confondere le idee all’ascoltatore riuscendo a confezionare un prodotto musicale originale, senza strafare e dove la contaminazione non raggiunge mai quei “punti di non ritorno” che spesso rendono la materia sonora di non facile digeribilità.

Se c’è un termine che riassume bene le spinte innovative e la ricerca di Federico Calcagno, Filippo Rinaldo e Stefano Grasso, questo termine è “equilibrio”. E non c’è da sentirsi sminuiti per questo, poiché l’equilibrio, in tutte le arti (e forse in tutte le cose), è uno stato difficile da raggiungere e ancora più difficile da mantenere.
Già in One Way che apre il lavoro, ai primi vagiti elettronici e percussivi, segue una corposa parte, dove clarinetto e pianoforte sembrano controbilanciare, con un dialogo serrato e temperato, le incursioni iniziali. Si conferma, già dal secondo brano, When my brain exploded, al di là del titolo un po’ inquietante, una sostanziale stabilità delle sonorità, con un colore sonoro più pastoso, un jazz che sa solo di jazz e che, dopo una parte centrale molto vivace, non rinuncia a qualche piccolo e delizioso intimismo nel finale. È con Interludio che lo sconfinamento e l’ammiccamento (anche nel titolo) alla musica classica, si fa più esplicito. Ma anche qui è la “giusta misura” a non far deragliare il convoglio e a tenerlo sui binari di un jazz di grande fattura. Anche The Rite of String sembra alludere, in maniera deliziosa, a qualcosa di ancestralmente conosciuto; non so perché ma ho pensato all’Ebony Concert di Stravinsky, pur con tutti i distinguo che volete e nonostante il titolo, voglia alludere ad una ancor più celebre composizione stravinskyana. Psy War è invece uno scorrazzamento più libero sulle vaste praterie del free, così come Bricks sembra voler restare nell’ambito della sperimentazione più consueta. Study of portrait evidenzia la grande raffinatezza del vibrafono di Stefano Grasso, mentre November Blues ci introduce a temi più cupi ed introspettivi. Chiude il disco La città deserta, brano destrutturato con grande sensibilità e versatilità di colori sonori tenui ed intimi. Un esempio di come ci si può far contaminare senza soccombere, di come ci si può far attraversare da umori musicali diversi senza perdere la propria identità. Gran bel disco, con magnifica, surreale cover.
Tracklist:
01. One Way
02. When My Brain Exploded
03. Interludio
04. The Rite of Strings
05. Psy War
06. Bricks
07. Study for a Portrait
08. November Blues
09. La Città Deserta
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