C I N E M A
Articolo di Silvia Folatti
Non è un film sugli Oasis e sulle vicende turbolente dei fratelli Gallagher. È un docufilm su quel grande rito collettivo che noi tutti ricordiamo bene e che ci manca da morire: il concerto, non in teatro o all’aperto seduti col distanziamento ma quello col bagno di folla, il sudore, gli spintoni, la fatica ma insieme la magia, l’adrenalina, la passione, il piacere puro e la gioia assoluta di condividere all’unisono un’emozione, un sogno, un’armonia fugace e proprio per questo perfetta. Sul palco ragazzi o ex ragazzi come noi che per scommessa, cocciutaggine, ribellione e un pizzico di fortuna ce l’hanno fatta ma che senza il vero talento, coltivato con coraggio e convinzione suonerebbero ancora in qualche club indie rock di Manchester e dintorni.
Ma loro no, negli anni ’90 in pochissimo tempo sono assurti da band promettente a gruppo cult più acclamato del Regno Unito e non solo, polverizzando il successo e oscurando il prestigio di altre band consolidate e adorate da schiere di adolescenti e giovani amanti del Brit-pop.
Devo confessarlo, vent’anni fa ebbi una discussione con un mio alunno che sosteneva che gli U2 non reggessero il confronto con gli Oasis e che fosse loro il futuro del rock alternativo. Forse per questo mi rimasero antipatici per anni e mi rifiutai di dar loro ascolto e credito. Ma alla fine i ragazzi hanno sempre ragione e ci vedono lungo: man mano mi sono dovuta ricredere e come spesso accade, un pezzo dopo l’altro ha scalfito la mia convinzione granitica, incrinando il muro di pregiudizi e ampliando i miei orizzonti musicali e non. Ma torniamo al film, che ha nel titolo il nome di un luogo e di un anno: un anno e un luogo che hanno fatto la Storia, come dice Noel all’inizio dell’esibizione nella seconda data davanti a 125.000 persone, radunate nell’immenso prato di Knebworth, località a nord di Londra neanche tanto comoda da raggiungere ma sommersa da una fiumana di ragazzi in preda a una febbre estatica. Il film inizia descrivendo l’epopea di chi ha dovuto prima procurarsi i biglietti non con un click ma facendo lunghe code davanti ai locali che li vendevano oppure infinite attese al telefono ancora “attaccato al muro” dei genitori, sottolinea una delle ragazze voci narranti del docu-film-concerto. E poi le rocambolesche avventure per raggiungere con qualsiasi mezzo la venue, il luogo del concerto, uno sterminato campo parte di una residenza prestigiosa e suggestiva nell’Hertfordshire: la campagna inglese al suo meglio e un’organizzazione imponente e perfetta.

Si aprono i “cancelli”, migliaia di ragazzi si riversano elettrizzati e con la gioia negli occhi davanti al palco nell’attesa febbrile che i sacerdoti amministrino il grande rito sacro. Il concerto ha due prospettive: quella degli spettatori e quella dei componenti della band: Liam e Noel, (Noel e Liam?), Paul Bonehead Arthurs e Paul McGuigan. Da entrambe le parti incredulità, passione, stupore, ingenuità e corrispondenza di amorosi sensi. Gli spettatori sono rapiti e un ragazzo che ora è un uomo fatto sottolinea come quello sia stato uno degli ultimi grandi concerti (la parola utilizzata in inglese è sempre “gig” che in italiano non corrisponde esattamente a concerto, racchiude il significato di “evento”, “serata”, “spettacolo”, “esibizione”… beh è stato una delle ultime occasioni in cui ci si perdeva completamente nell’attimo da cogliere, da vivere il più intensamente possibile, senza il pensiero di scattare una foto o girare un video da pubblicare poi su un social network. Ecco cosa ti cattura e ti fa venire i brividi di quel concerto, che nessuno aveva in mano un cellulare o uno smartphone e nessuno lo sollevava impedendo agli altri di vedere il concerto se non attraverso gli altri telefoni, nessuno perdeva tempo a mandare messaggi per condividere quello che stava vivendo: tutti divoravano il presente condividendolo con gli altri presenti cantando all’unisono fino a non avere più voce, gli uni addossati agli altri, in un tripudio di corpi e anime, ballando in un vortice liberatorio, saltando tutti insieme, ipnotizzati dalla voce magnetica del maestro di cerimonie Liam e dalla chitarra graffiante di Noel, nella seconda data coadiuvato da un grande John Squire degli Stone Roses, comparso inaspettatamente sul palco mandando in delirio gli spettatori.

I ragazzi di Knebworth sapevano di stare vivendo un momento straordinario, unico, cristallizzato nel tempo e di doverlo ricordare come un frammento memorabile e prezioso della propria giovinezza, come recita uno dei pezzi più significativi e suggestivi del concerto che è risuonato come un inno a quell’età incomparabilmente bella e dolorosamente inquieta che si chiama giovinezza, in cui tutto è ancora possibile e niente sembra più difficile da raggiungere, The Masterplan:
It’s up to us to make
The best of all the things that come our way
‘Cause everything that’s been has passed
The answer’s in the looking glass
There’s four and twenty million doors
On life’s endless corridor
La chicca finale? Il film è in lingua originale (con sottotitoli in italiano) e questo rappresenta non un limite ma un valore aggiunto, quindi… Don’t look back in anger!!

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