I N T E R V I S T A
Articolo di Claudia Losini
Michael Venturini è un cantautore influenzato dalle sonorità nostrane, americane e inglesi. Attivo da molti anni nella scena underground, si esibisce parecchio dal vivo sia in Italia con la sua prima band, The Albion, che soprattutto a Londra e in Australia, dove vive per 6 anni. Tornato a Roma poco prima della pandemia conosce Edoardo Elia e Luca Di Cataldo (Weird Bloom) che lo aiutano a produrre il suo debut-album Popolare fuori moda in uscita a novembre 2021. Lo abbiamo contattato per conoscere qualcosa in più della sua storia e di questo interessante esordio. Nel frattempo vi facciamo ascoltare in anteprima Il mondo degli adulti, il suo quarto singolo.
Hai cominciato con i The Albion, un gruppo indie rock influenzato da Pete Doherty e dall’Inghilterra. Cosa ti ha spinto a prendere la strada solista e dopo tanti anni produrre un disco solista?
Ciao, è iniziato tutto con Pete Doherty; all’epoca avevo vent’anni e appena intrapreso una carriera nello sport professionistico. Un infortunio mi costringeva a letto e dalla mia camera d’albergo vidi su MTV il video di “Delivery”: boom, volevo essere lui, in pochi anni lasciai lo sport, mi iscrissi all’università ed imparai a suonare la chitarra. Gli Albion sono arrivati qualche mese dopo la visione di quel video; feci un lavaggio del cervello di qualche mese ai miei due migliori amici sui Libertines e i Babyshambles e alla fine si innamorarono anche loro, imparando a suonare uno la chitarra e l’altro il basso. Seguirono i 4 anni più belli della mia vita; suonare in giro con degli amici fraterni non si può spiegare a parole, fatto quando sei poco più che ventenne poi, ti fa sentire padrone del mondo. Ancora oggi, nonostante internet abbia quasi fatto scomparire le band e si vedano in giro sempre progetti solisti, fare musica insieme vince sempre; la musica è condivisone per sua stessa natura. Purtroppo condividere progetti e piani con altre persone è quanto di più difficile e quando i miei, dopo tanti anni di tentativi, non hanno trovato sostegno ho deciso che non potevo più aspettare e mi sono mosso; ho aspettato tanto perché il mio sogno era farlo con un gruppo di amici ma ad un certo punto ho dovuto accettare la realtà ed esprimermi in maniera diversa, più intima certo, ma non solitaria. Non si fanno certe cose da soli, impossibile, i miei compagni in questo viaggio non sono stati un batterista o un bassista, un manager o un discografico come immaginavo ma figure che fino a qualche tempo fa non consideravo affatto, come un co-produttore e un fonico. Cambiano le etichette verbali che si danno ai ruoli ma alla fine parliamo sempre di persone.

Il tuo immaginario visivo prende molto dagli anni 60, nelle cover (realizzate da facciocosepunto) ritroviamo tanta psichedelia beatlesiana, nei testi visioni felliniane, c’è tanta Inghilterra ma anche tanta Italia. Quali sono le tue maggiori ispirazioni?
Sono piuttosto soddisfatto della mia cultura generale musicale come ascoltatore; so quando ho bisogno di ascoltarmi Chopin e quando Kurt, quando la tromba di Bechet e quando le chitarre degli Strokes eppure si, devo confessare, sono un fanatico degli anni ’60 e ’70; è che, a livello di musica pop, tutto quello chi mi interessa veramente è accaduto grosso modo nel ventennio che va dal 1953 al 1973; più passa il tempo e più peggiora, non posso farci niente! a dire la verità però di copertine non me ne intendo molto e infatti i ragazzi di Costello’s e Veronica nello specifico mi stanno aiutando molto in questo senso, mentre per quanto riguarda i testi non so se definirli “felliniani”; all’inizio scrivevo molte parole, ora invece tendo sempre a stringere; soprattutto da quando, ahimè, esiste il rap e tutto il mondo che si porta appresso, i testi sembrano dei colloqui tra amici, viene detto tutto, troppo. Io vengo dalla letteratura dove i lavori migliori vengono mostrati e non detti. Non ci trovo nulla di stimolante e interessante nello scrivere testi chilometrici dove ti dico tutto quello che penso, anche con un linguaggio scurrile; la mia missione è racchiudere in 5 parole un ragionamento di mezzora. Infine sai, Italia e Inghilterra sono i paesi dove ho speso più tempo finora quindi è naturale che molti scenari che descrivo abbiano questo
ambientazione.
“Alibò” e “Il mondo degli adulti”: queste due realtà che ci racconti sono popolate da persone che abbiamo incrociato nella nostra vita, forse siamo addirittura noi stessi. Nel tuo mondo degli adulti ci sono ex studenti universitari che inseguono grandi ideali che si rompono contro il muro della quotidianità, sogni che diventano lavori stressanti e amori che si rivelano delusioni. Anche tu sei “fuggito di casa” per vivere esperienze all’estero e ora sei tornato. Com’è stata questa esperienza e quanto è servita per scrivere i testi del tuo album?
Bravissima, quelle persone siamo noi. Ci sarà sempre un modo diverso di raccontarle ma in quelle esperienze ci siamo tutti e quindi, si certo, anche io. Tuttavia i testi dell’album non sono esclusivamente autoreferenziali, ho girato molto in questi anni e scritto anche molto, tutto quello che mi interessava; mi sono immedesimato nelle vite delle persone che incontravo sulla base di qualche chiacchierata scambiata velocemente e anche ispirato a storie di vita di persone che invece conosco piuttosto bene. Ecco, la mia esperienza in questo senso è stata molto utile, oltre a tantissimi altri sensi che ora non è il caso di elencare, ma per la scrittura nello specifico il beneficio è sicuramente altissimo, molto più di tutti quei seppur splendidi romanzi di cui mi sono riempito la testa ai tempi dell’università.

Nel tuo disco c’è tanta disillusione, seppur mascherata da una musica molto orecchiabile. È finita l’epoca dei grandi sogni e dei grandi sognatori e del motto “se vuoi, puoi fare tutto quello che desideri”? Dove finisce il sogno e inizia l’illusione?
Finché ci sarà “un’epoca” esisteranno i sogni e i sognatori, questo è molto positivo; il motto invece non mi piace per niente, è un tipo di comunicazione pubblicitaria che appartiene a tutto quell’immaginario pernicioso degli anni ’80 che io sono convinto abbia fatto dei danni incalcolabili; in nome del denaro e del successo in carriera ha diffuso l’idea che tutto sia possibile e tutti possono avere quello che vogliono. Questo è molto tossico perché non è la realtà. Il sogno dovrebbe mutare costantemente ma mai finire, mentre l’illusione inizia proprio quando non si hanno gli strumenti per distinguere la realtà dalla finzione. Il sogno ti tiene vivo e ti da la forza di svegliarti al mattino, l’illusione invece sfocia spesso anche nella tragedia, è molto pericolosa quindi ti dico che certo, è malinconico quel momento della vita in cui l’abbandoni ma se ti fermi a pensare un momento è anche liberatorio, quindi positivo; sei pronto per chiudere un capitolo della tua vita e iniziarne un altro, andare avanti, spinto ovviamente da nuovi sogni.
Qual è per te l’antidoto per combattere, coltello Miyabi a parte, la sensazione di sconforto che provoca l’età adulta?
Domanda difficile; forse proprio quello che ho detto poc’anzi, sforzarsi di distinguere finzione da realtà: alla fine la narrazione non è il male assoluto (intendo il denaro, la politica, la religione, la carriera, la moda) è vitale per cooperare, ed è solo la capacità di collaborare che ci permette di essere la specie dominante del pianeta; ma sono solo storie, convenzioni, Harari la chiama “realtà immaginata” una locuzione che mi piace molto; ecco, queste storie non dovrebbero diventare i nostri obiettivi e i nostri parametri di riferimento perché quando dimentichiamo che si tratta di finzione perdiamo il contatto con la realtà, quella oggettiva, qui arriva lo sconforto. Voglio dire, hai citato Santoku Miyabi, dove il protagonista è sull’orlo dal compiere una strage proprio perché ha permesso a dinamiche convenzionali esterne di impossessarsi del suo centro, del suo controllo e di rovinare anche le sue relazioni e i suoi rapporti sociali; questo fa si che la rabbia salga sempre di più e a quel punto, la tragedia è dietro l’angolo.
Photo © Silvia Zora
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