R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

La ”manovra di Heimlich” è un’azione di pronto intervento messa in pratica per disostruire le vie aeree, in caso di occlusione accidentale. Con un opportuno abbraccio salvavita praticato alle spalle del malcapitato si esercita una forte pressione addominale, cercando di favorire il reflusso del materiale occludente e il naturale ritorno del respiro. Con un curioso gioco di parole, il contrabbassista trentasettenne norvegese Jo Berger Myhre chiama questa sua opera prima – come solitario titolare – Unheimlich Manouevre, dove il termine tedesco “Unheimlich” si traduce in italiano come “inquietante, allarmante”. Myhre non è un nome nuovo. Fa parte, infatti, del quartetto di Nils Petter Molvaer dal 2013 e ha lavorato e pubblicato dischi come sideman con numerose formazioni in madrepatria, nonché editando due lavori in coppia con Olafur Olaffson – musicista che ritroviamo anche in questo disco – nel 2017 e 2019, accompagnando inoltre cantanti famose a livello internazionale come, ad esempio, Solveig Slettahjell. In questa occasione, però, Myhre si presenta intenzionalmente come unico titolare, essendosi avvalso della collaborazione a distanza – cosa che è accaduta spesso durante il lockdown – di altri colleghi in un percorso quasi totalmente improvvisato e dai risvolti insoliti. Straboccante di fioriture elettroniche, manipolazioni, interventi con bordoni e rumori addomesticati, l’opera in questione s’arricchisce di elementi acustici, come la chitarra di Jo David Meyer Lyane, il piano di Jana Anisimova, il tombak – un particolare tamburo orientale di origine iraniana – di Kaveh Mahmudiyan, la voce narrante di Vivian Wang. Chiudono il cerchio magico il synt di Morten Qvenild e l’organo di Olafur Olaffson.

Il contrabbasso di Myhre viene stimolato con l’archetto, a volte manipolato con strappi improvvisi, ed è quasi sempre immerso in un drone elettronico che ne reitera le volute sonore, ne sottolinea echi e riverberi. Un’occasionale drum-machine suonata dallo stesso Myhre rifinisce in più occasioni qualche necessità ritmica al di là degli interventi del tombak. La sensazione complessiva, più che inquietante come suggerisce il titolo dell’album, stimola una sorta di meditazione auto-riflessiva. Lo squarcio oscuro che si vede in copertina sembra quasi volerci invitare a calarsi nel suo interno per intraprendere un catabasico percorso nelle profondità della psiche, un’immersione ad occhi aperti nelle tenebre dell’ignoto. L’atmosfera è rarefatta, una landa desertica in cui emergono suoni talora ispidi, altre volte più docili ma sempre con una certa sulfurea voluttà espansiva, nell’ansia di riempire il vuoto con la presenza di un’anima sonora che possa in qualche maniera fugare le ombre dell’incertezza. Altro che “ambient”!! Qui non c’è il respiro di spazi aperti ma un horror vacui da colmare con la musica, nella ferma intenzione di non annichilirsi in una palude stagnante di ombre e di timori.

Il disco si apre con Everything Effacing in cui cupi colpi di drum machine e accordi di tastiera in minore, calati con regolare frequenza, sorreggono l’inserimento di un archetto che sfrega le corde del contrabbasso, barcamenandosi tra note che ricordano trame modali di modello orientale. È l’inizio di un viaggio, una speleologica discesa alla ricerca di timbriche perdute, scivolate nei crepacci della mente. Smallest Things, part 1 ha una pulsazione sorda, cardiaca, che si svolge sotto l’intero brano in cui vibrano effetti elettronici e sonorità di chitarra acustica. Piano e contrabbasso ripetono la stessa linea melodica ma ancora ci si avvale di una piega orientaleggiante con l’aggiunta delle percussioni. Il suono resta comunque selvatico, indecifrabile, alle volte ostile. Il seguente Aviary è il brano che preferisco. L’ascoltatore viene rincuorato da un melodico, bel tema di piano, su cui la chitarra prima e poi il contrabbasso lavorano interponendosi ed allacciandosi, con lo stesso basso e il synth che ripetono la traccia melodica segnata dalla Anisimova. Per mezzo della drum machine in sottofondo il brano vira verso un’atmosfera quasi pop, confermando la sua globale piacevolezza. Cynosure si mantiene in ambito melodico con gli interventi tra le righe del tamburo di Mahmudiyan. Un brano sospeso nel Tempo, un piccolo sortilegio notturno, enigmatico come del resto si profila l’intero album.

Smallest things part 2 vede l’intervento del parlato della Vivian Wang che narra un racconto di Raymond Carver, “I could see the smallest things”. L’accompagnamento sonoro si avvolge attorno alla sensualissima voce recitante e qui è l’incrocio di organo e synth che creano un alone selenico d’intensa fascinazione. Gate opens è un altro brano melodico, questa volta con la chitarra di Meyer Lyane in evidenza disegnando un accompagnamento di poche note, scarne e penetranti, sempre appoggiate su quel verbo elettronico che continua a declinare i suoi tempi nei soliti vapori avvolgenti. Perils è praticamente solo contrabbasso, impegnato in una monodia urticata da sovrapposizioni dello stesso strumento e da cicli di ritorni elettronici che sottolineano la tendenza principale dell’album verso l’oscurità. Un nervoso arabesco onirico a metà tra la stupefazione e l’incubo. Sustainer cerca di dilatare gli spazi con rarefatte, estatiche note d’inabissamento sempre più profondo, portate in prima linea dal contrabbasso e accompagnate da tastiere dai toni un po’ sinistri. Chiude Inner relations e siamo arrivati sul fondo di questo mondo perduto, con un contrabbasso oscuro incorniciato da una collana di tirsi elettronici. È il disfacimento dell’apollineo, il ritrovamento di una scatola nera che ha da raccontare una fine annunciata.

Unheimlich Manouevre si svolge così, in un insieme di suoni interiorizzati, alla ricerca vana di una ragione nascosta. Il lavoro è affascinante, nel suo complesso, pur con alcune discontinuità e talune incertezze compositive. Del resto lavorare a distanza annulla la presenza fisica, a mio parere essenziale per cogliere umori, respiri, sguardi d’intesa tra i musicisti. E forse questa lontananza è il vulnus responsabile di un lavoro che nel suo insieme è piuttosto buono ma in qualche modo mancante di piena completezza.

Tracklist:
01. Everything effacing
02. Smallest things, part 1
03. Aviary
04. Cynosure
05. Smallest things, part 2
06. Gate opens
07. Perils
08. Sustainer
09. Inner relations