R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Quando ci troviamo di fronte a un lavoro d’esordio, come questo Quiet dreams di Ramon Van Merkenstein Trio, si corre talora il rischio di commettere dei piccoli, involontari “crimini” di omissione. Questo perché spesso la memoria ci tradisce e non ricordiamo, invece, di aver già incontrato certi artisti lungo la nostra strada. Van Merkenstein, ad esempio, trentasettenne contrabbassista olandese ma risiedente in Belgio da una decina d’anni, l’avevamo già notato tra i musicisti che costituiscono il Francesca Remigi Archipelagos nel suo Labirinto dei topi (2021) – la recensione di questo disco la trovate QUI. Anche i collaboratori di Markenstein non sono nomi nuovi. Ad esempio Gabriele Di Franco, interessante ed eclettico chitarrista italiano ma residente anche lui in Belgio, sempre un po’ sospeso e attratto da generi artistici differenti – è anche scrittore, oltre che musicista – l’abbiamo presente in un notevole lavoro condotto insieme a Stefan Gottfried, So far del 2018 e in un secondo disco – Dedalo – uscito nello stesso anno ma compartecipato con la Bud Powell Jazz Orchestra. Lieven Venken, il batterista, oltre alla collaborazione con decine di jazzisti in concerti sparsi per il mondo, è apparso in un bel un disco – da prender nota – con la pianista israeliana Anat Fort, Bubble, uscito nel 2019. Van Merkenstein ha vissuto a lungo il conflitto che vivono oggi moti giovani musicisti, divisi in due anime tra cui una tentata da un lavoro sicuro che esuli dall’ambiente strettamente musicale – Ramon è laureato in scienze biomediche – l’altra aggrappata al desiderio di essere musicisti a tempo pieno. In questo caso le sirene della Musica hanno avuto la meglio e Van Merkenstein si è messo in gioco presentandosi all’ascolto del pubblico con un classico trio chitarra-contrabasso-batteria.

I tre musicisti suonano un jazz moderno in cui la chitarra segue poco le tracce dei padri fondatori – Montgomery, Hall, Green, Christian, Pass ecc… – per orientarsi piuttosto verso una dimensione più contemporanea che evoca i nomi di Abercrombie, Scofield, Corryell, in parte anche Frisell, seppur con note più pensate, più meditate, meno impulsive rispetto a quelle di questi ultimi maestri. Come si è visto in altre formazioni similari – non importa se sia il pianoforte o la chitarra a muovere le note come strumento armonico principale – le tradizionali gerarchie tra strumentisti che vigevano fino agli anni ’60 ora non sussistono più. In effetti, in questa circostanza, contrabbasso e batteria intervengono spesso e volentieri proponendosi in prima fila al pari della chitarra e l’impressione che ne abbiamo è quella di un interplay più equilibrato, una democrazia sonora in cui ogni strumento è paritario all’altro. Il contrabbasso di Van Merkenstein, infatti, è suonato con garbato senso della misura frutto della consapevolezza di essere non lo strumento titolare ma uno fra i tre, evidenziandosi spesso con una morbidezza avvolgente che mi ricorda il tocco di Charlie Haden. Venken è batterista fantasioso, aperto, carico di esperienze molteplici acquisite con lo scambio tra numerosi jazzisti di tendenze musicali diverse, che sa tenere a freno l’esuberanza ma che comunque “si fa sentire”, ponendo ben evidente in calce alla sequenza delle esecuzioni la sua firma percussiva.

Devious dance si apre con l’introduzione di contrabbasso a cui segue la chitarra che espone un tema dal sapore orientaleggiante. Frequente l’uso dei bicordi che continua in sottofondo anche durante l’assolo di contrabbasso. Quando invece è Di Franco a proporsi per l’assolo, come precedentemente accennato, non si tratta di note turbinanti che si liberano dalla chitarra, ma suoni ben selezionati, ponderati, circoscritti dall’abbraccio premuroso dello stesso contrabbasso. Ocean waves s’annuncia con sonorità piene di echi e di percussioni che tendono ad evocare spazi d’ampio respiro per poi far entrare dapprima il contrabbasso e secondariamente la chitarra, quest’ultima dopo circa un minuto e trenta dall’inizio. L’impressione è che ci sia molto debito nei riguardi dell’improvvisazione, qui più che nel brano precedente e il pezzo appare stilisticamente più dilatato, carico di un’energia potenziale che si manifesta a momenti ma che comunque rende evidente l’autocontrollo degli strumentisti per i quali “non strafare” sembra il metro di giudizio più accreditato.
One for Tyner rispetta il cliché fin qui seguito ma l’incedere ritmico, ben sottolineato dalla batteria e dai piatti – molto utilizzati – di Venken, prende a tratti il sopravvento per acquietarsi dalla metà in poi, quando l’assolo di Van Merkenstein va a precedere un finale un po’ turbolento in cui la chitarra si esprime attraverso una moderata serie di distorsioni naturali. November song salta il fosso proponendosi come brano molto lento, riflessivo, quasi dieci minuti con la chitarra che ha innescato un moderato effetto riverberante in sottofondo. S’instaura un dialogo sommesso tra contrabbasso e chitarra, affidato all’improvvisazione, con la batteria che non si tira certo indietro e interviene come prezioso adesivo in questo colloquio strumentale. Nella traccia si evidenzia soprattutto la perizia esecutiva con Di Franco che è sempre cauto nella scelta dei fraseggi e delle note, sfrondando all’origine ogni idea prolissa.

Quiet dreams? è stata scritta da Van Merkenstein per suo figlio e il punto interrogativo che fa parte del titolo sembra che voglia mettere in dubbio l’effettiva tranquillità di certi sogni. In effetti il brano vive di una tensione sotterranea ribadita da un basso inquieto e da numerosi cambi di tonalità mentre le percussioni si arricchiscono qua e là di nuovi suoni. Midnight mission apre con un’idea presa a prestito dall’Aranjuez di Rodrigo dove il contrabbasso sfrutta l’archetto e imposta una traccia percorsa poi da una chitarra indurita e distorta. Del resto Di Franco si definisce come artista “ambiguo” perché si sente assorbito da numerosi stimoli musicali, tra cui il rock duro. La batteria lo segue e la voglia di tirare la corda è palpabile. Poi arriva Dazzle dew e con questo brano si ritorna in fase meditativa. La linea melodica la traccia il basso, almeno inizialmente, poi la chitarra dice la sua aprendo la rosa delle sue possibilità forse come non mai. Sempre suoni calibrati, distillati goccia a goccia e soppesati usando bilancine da farmacista. Thoneraux è forse il pezzo più “free”, nel senso che appare più slegato rispetto agli altri, anche se c’è da notare l’unisono basso–chitarra in fase iniziale e terminale che sembra ridimensionare l’importanza dell’improvvisazione. Gran finale con rullate di tamburi e frase reiterata di chitarra. Passing on sembra il prosieguo della traccia precedente ma più coerente, con l’impressione di una struttura più organizzata e meno lasciata all’impronta estemporanea dell’improvvisazione. Bass interlude è un breve assolo in solitudine di Van Merkenstein, non indimenticabile ma che sfuma fondendosi con Eastern Western. Qui la chitarra somiglia a quella di Bill Frisell e anche il titolo del brano ricorda East/West, uno dei lavori più belli del chitarrista di Baltimora. In effetti quest’ultimo brano che chiude il disco è tra quelli maggiormente godibili e swinganti. Il fraseggio di Di Franco diventa più serrato e si velocizza, pur perdendo qualcosa in termini di originalità. C’è anche spazio per l’assolo di batteria di Venken.

Non è affatto una musica per iniziati, questa di Quiet dreams, ma si risolve altresì in una scrittura tesa e dinamica, a tratti un po’ selvatica ma assolutamente personale e soprattutto sobria. Un flash di notevole interesse dal mondo in genere poco praticato del jazz fiammingo.

Tracklist:
01. Devious Dance
02. Ocean Waves
03. One for Tyner
04. November Song
05. Quiet Dreams?
06. Midnight Madness
07. Dazzle Dew
08. Thoneraux
09. Passing On
10. Bass Interlude
11. Eastern Western