R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Prima ancora di aver potuto ascoltare la musica di The Silence of the Broken Lute, sono stato affascinato dal titolo di questo ultimo lavoro di Dino Betti van der Noot. Un liuto rotto mi ricorda il Père-Lachaise dove, sulla tomba di Chopin c’è la statua di Euterpe, la Musa della Musica, che tiene tra le mani lo strumento spezzato. Un po’ più complessa è la decriptazione simbolica de “I due ambasciatori” di Holbein il Giovane. Chi osserva il dipinto viene attratto da un’anamorfosi ai piedi dei due soggetti rappresentati, cioè una immagine deformata che riacquista il suo aspetto originario osservando il quadro di sbieco. Ma il particolare che sfugge quasi a tutti, è la presenza di un liuto con una corda rotta sul tavolino alle spalle dei due uomini. Forse un “memento mori”, forse un’allusione alla frattura riformista luterana, forse altro ancora. Ma un liuto rotto, o una cetra appesa ad un salice come nel caso della nota poesia di Quasimodo, è da leggersi sempre come un’interruzione luttuosa, uno sfregio all’arte e soprattutto all’armonia della vita stessa sulla cui responsabilità ha gravato, di questi tempi, il passaggio della pandemia. Ed è stata questa l’idea motivante di Van der Noot, cioè quella di riprendere tra le mani i propri strumenti, di non lasciarli languire in un pallido limbo in attesa di tempi migliori ma di farli risorgere alla vita attraverso la musica. Non basta però una composizione in solitaria, c’è invece bisogno di collettività, di riprendere il rapporto espressivo e comunicativo con gli altri seppur a dovuta distanza, scuotendosi dall’isolamento obbligato e riacquistando il potere di dare un senso vitale alla propria esistenza. La musica diThe Silence… è in parte sapientemente scritta ma in altra parte, come vuole la miglior tradizione jazz, affidata all’interpretazione improvvisata dei singoli strumentisti. Siamo al cospetto di un insieme orchestrale di oltre venti elementi – ventidue per la precisione – già collaudati in alcuni ensemble precedenti organizzati dallo stesso Van der Noot. Musicisti che si conoscono tra di loro, quindi, che sanno interagire al momento opportuno adattandosi alle varie sfumature della partitura e facendo levitare un’opera che di per sé appare notevolmente complessa. Del resto tutti i lavori del compositore ligure non sono mai stati “di pronta beva”, per dirla in termini enologici. Piuttosto sono come vini pregiati, vanno sorseggiati pian piano per gustarne tutti gli aromi, dai più evidenti a quelli maggiormente nascosti.

L’album è costituito da cinque tracce, ciascuna con caratteri esteriori diversi ma con l’unica condizione di far emergere quel magmatico insieme di sensazioni e sentimenti che si sono agitati nei momenti di solitudine forzata, dalle tristezze di una chiusura obbligata alla incredula consapevolezza di aver ritrovato forza e relazioni, dal caos, quindi, alla liberazione e all’esorcismo del Male. Si può definire introversa, un’opera di questa fattura, così come ho letto da diverse parti? A mio parere non più di tanto perché la pulsione provata dall’Autore è proprio invece quella contraria, cioè il bisogno di estrovertire la complessa mescolanza di disagio e di sbandamento che l’aveva coinvolto – lui come tutti – ma che egli, in quanto artista, ha saputo trasformare e sublimare in musica. L’ascolto che possiamo fare, in questo caso, non può che essere aperto, paziente e disponibile a coglier tutte le dinamiche – e sono tante – presenti e stratificate suono su suono, armonia su armonia. Sonorità di stampo classico, jazz e folk si sovrappongono mescolandosi in plessi compenetrati uno nell’altro, a volte rendendo difficile il loro sbrogliarsi, così come sono complicati naturalmente i nostri pensieri, pieni di frammentazioni, ricordi, idee subitanee che vanno e vengono. Gli strumenti utilizzati sono molteplici ed eterogenei, provengono da tempi e culture differenti. Riferimenti più espliciti verso altri autori orchestrali li cercherei tra Michael Mantler – trovate la recensione del suo ultimo album QUI – e le atmosfere organizzate di Maria Schnaider, forse maggiormente vicine a Van der Noot che non quelle più enigmatiche dello stesso Mantler.
La prima traccia, che porta il nome dell’album, The Silence of the Lute, esordisce con quell’intervallo di quinta che si ascolta anche in Richard Strauss – nell’Also sprach Zarathustra – e questa coppia di note, la loro distanza che ritorna più volte in questo brano ed anche oltre, così carica di un intrinseco ottimismo e di forza interiore, è forse la testimonianza più concreta della voglia di risalire verso la luce. Dalla dolcezza dell’arpa di Vincenzo Zitello e dei fiati, dalle voci sussurrate che appaiono in sottofondo, dall’aria melodica in cui il brano è intriso si arriva fino alle escursioni del sax di Sandro Cerino che a metà percorso inserisce un’impennata di jazz, coadiuvato dalla trama gentile del piano in sottofondo di Niccolò Cattaneo. È difficile ricondurre ogni singolo strumento al musicista che lo suona, e mi scuso per le attribuzioni carenti che potranno seguire ma al di là del singolo e della sua ineludibile bravura, è forse più giusto parlare dell’insieme, cioè dell’orchestra, del corpo unico che svolge globalmente il proprio compito espressivo, oltre che meramente esecutivo. Listen for the sea sorge è un titolo, come racconta lo stesso Van der Noot, ispirato da un verso di Ezra Pound che viene dai suoi Cantos. Il brano inizia riproponendo il tema della traccia precedente ma si muove su una base ritmica più movimentata in cui si coglie il profondo battito delle tablas di Federico Sanesi. Sono i fiati a condurre il gioco con una certa marzialità sino a quando, muovendosi sopra un’alternanza di delicati accordi di piano, intervengono i tromboni, prima quello basso di Gianfranco Marchesi e poi gli altri di Stefano Calcagno, Enrico Allavena e Luca Begonia. Il brano è inizialmente più viscerale di quello precedente e molto più squillante. Da poco dopo la metà, preceduto dalla cristallinità dell’arpa, arriva il sax tenore di Visibelli e si cambia momentaneamente clima, entrando in un mood che sa quasi di ballata urbana. È un’illusione perché da qui in poi si ritorna ai ritmi iniziali, quasi annunzianti un cambiamento prossimo venturo con l’aspetto drammatico e fiero imposto dalla naturale fragorosità degli ottoni. Here comes springtime è un brano composto nell’85, qui riadattato alla nuova situazione, che esordisce con un profilo piuttosto free al sax muovendosi agilmente sulla abituale trama di piano di base. Il giocoso vibrafono di Luca Gusella contribuisce a creare una eterea melodia, quasi una cantilena, uno sfrangiato ricordo infantile su cui intervengono le tablas e il violino di Emanuele Parrini. L’irrompere dei fiati rimanda al blues e da questo punto in poi sarà proprio questo aspetto a costituire la trama fondamentale del brano su cui numerosi break interverranno a modificare temporaneamente la situazione, ad esempio il sax in assolo – di Sandro Cerino – una tastiera con registro d’organo – Filippo Rinaldo per l’occasione – arpa e viola, tutto a mescolarsi tra blues e la melodia cantilenante sopra accennata.

Our Nostos s’allarga su un multicolore tappeto percussivo dove partecipano, oltre al batterista Stefano Bertoli, Tiziano Tononi e Federico Sanesi. “Nostos” è un termine greco che significa “ritorno”, da cui il termine italiano “nostalgia”, cioè quel vago dolore misto a piacere del richiamo al passato, dei luoghi e dei volti fissati con la memoria. Qui si tratta, visto l’incedere iniziale festosamente caotico e il finale celebrativo, di uno speranzoso e possibile ritorno alla normalità, quasi una sacralizzazione di una seconda vita – per chi si è ammalato ed è guarito dev’essere stato proprio così… Chiude l’album Souriante epanouie ravie (sorridente, raggiante rapita) un verso estrapolato da una poesia di Jaques Prevert, Barbara, tratta dalla raccolta Paroles del 1946. Ambientati nella città di Brest sotto la pioggia i versi del poeta francese sono un’esortazione a guardare verso il futuro e a lasciarsi indietro i ricordi della guerra. E come tale, infatti, è stata la pandemia Covid 19. Atmosfera intricata, devo ammetterlo, con un tema iniziale abbandonato e poi ripreso verso il finale. Anche in questo contesto i fiati hanno la parte più importante. Notevole, in questo brano, tra gli altri, l’intervento al flauto traverso cinese, il dizi, da parte di Cerino. Numerose le dissonanze e le tensioni, poi evidentemente risolte verso le battute terminali in cui si ascolta un piccolo tracciato di basso elettrico per opera di Gianluca Alberti.
Un lavoro complesso, quindi, The silence…. e come tutte i lavori di questo tipo occorre tempo per dipanarlo, per comprenderlo, per individuarne i riferimenti più occulti. Ma quello che colpisce è l’onestà intellettuale di Van der Noot, la voglia di fare e di creare di un artista che ha sulle spalle molti anni di vita ma ancora tanta energia da liberare. Una musica, questa, animata da una natura bradisismica, in perenne movimento, creata non per acquietare ma per tenerci sospesi, attenzionati a tutto questo apparire e disparire di eventi sonori esuberanti e malinconici al tempo stesso. E Van der Noot sa bene che l’anima di queste note è l’unica forza che può opporsi a Thanatos, all’inimicizia, all’odio, al Male. Se è vero ciò che affermava Pablo Picasso che ogni opera d’arte è erotica perché animata dalla potenza incontenibile del desiderio allora questo ”silenzio del liuto rotto” è puro Eros. L’Amore sceglie sempre con cura i modi attraverso cui manifestarsi e questo ne è un evidente esempio.
N.B.= Riporto per correttezza i nomi dei musicisti che compaiono in questo cd, dato che prima non ho potuto nominarli tutti. Si tratta di Giampiero Lo Bello (tromba, cornetta, flicorno), Alberto Mandarini, Paolo De Ceglie, Mario Mariotti (trombe, flicorni), Luca Begonia, Stefano Calcagno, Enrico Allavena (tromboni), Gianfranco Marchesi (trombone basso), Sandro Cerino (flauto, dizi, clarinetto basso e sax alto), Andrea Ciceri (flauto, sax alto), Giulio Visibelli (sax tenore, flauto), Rudi Manzoli ( sax tenore e soprano), Gilberto Tarocco( clarinetto, clarinetto basso, sax baritono), Luca Gusella (vibrafono), Emanuele Parrini (viola, violino), Nicolo Cattaneo (pianoforte), Filippo Rinaldo (tastiere), Vincenzo Zitello (arpa celtica), Gianluca Alberti (basso elettrico), Stefano Bertoli (batteria), Tiziano Tononi (percussioni, tamburo rullante), Federico Sanesi (tablas, percussioni).
Tracklist:
01. The Silence of the Broken Lute
02. Listen for the Sea-Surge
03. Here Comes Springtime
04. Our Nostos
05. Souriante épanole ravie
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