R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Un lavoro piacevolmente spiazzante, questo nuovo The Uneven Shorter di Luca Mannutza. Riprendendo e riproponendo storici brani di Wayne Shorter che vanno dal 1964 al ’67, viene condotta sugli stessi una modifica della loro struttura ritmica, mantenendo però quasi intatte le linee melodiche e, nei limiti del possibile, anche la componente armonica. Il risultato si manifesta con un continuo slittamento dei tempi, combinati e sovrapposti, che modificano l’assetto originario dei brani nativi. Se questa operazione da un lato può dirsi tecnicamente ben riuscita dall’altro può suscitare qualche perplessità, soprattutto quando vengono ripresi brani di Shorter estrapolati dai dischi di Miles Davis perché in questa occasione aumenta il rischio di improbabili ed inevitabili raffronti con gli originali, tra l’altro autentici capolavori del periodo. Ovviamente non c’è nulla di male nel rifacimento di brani altrui, soprattutto nel jazz, noto per riproporre in una nuova veste un po’ di tutto, dalla classica agli evergreen fino alla musica pop. Però ci vuole un coraggio leonino e presumo anche un po’ d’incoscienza nell’affrontare alcune pietre miliari degli anni caldi del jazz, come quelli con cui il quartetto di Mannutza si cimenta in questo disco. Diciamo subito che i quattro musicisti – Luca Mannutza al piano, Daniele Sorrentino al contrabbasso, Lorenzo Tucci alla batteria e Paolo Recchia al sax – danno veramente il massimo di sé e dimostrano tutti grande competenza e un livello tecnico eccellente. Aggiungiamo inoltre che a Recchia va un plauso particolare perché, tra tutti, è il musicista che si espone di più proponendosi con lo strumento che appartiene a Shorter e quindi innescando giocoforza qualche rischioso paragone. Recchia però supera brillantemente questa prova – da ponte tibetano – proponendosi con un suono meno aggressivo rispetto a quello di Shorter, non molto pastoso ma più delicato, prediligendo suoni puliti e più luminosi. Mannutza dirige evidentemente le dinamiche di stratificazione ritmica che vede Sorrentino ma soprattutto la batteria di Tucci alle prese con continui slittamenti temporali, terremotando il suolo sotto i loro piedi e mettendo l’ascoltatore in una situazione di continua, gradevole instabilità.

Yes or no è la prima traccia che si presenta nella sequenza di The Uneven… e viene da un lavoro di Shorter targato 1965, Juju, in cui il famoso sassofonista si accompagna a McCoy Tyner al piano e ad Elvin Jones alla batteria. Sopra una sequenza ribattuta di note al contrabbasso parte il tema condotto al sax da Recchia a cui fa seguito lo spazio della sua improvvisazione. Come tutti i temi di Shorter si tratta di melodie mai scontate, dal fascino insolito. Il piano è ottimamente suonato, mai convulso, anzi offre spazi tra gli accordi e piccole pause che danno tempo all’orecchio di elaborare il senso della musica. L’originale veniva suonato in una forma un po’ più aggressiva mentre la rivisitazione di Mannutza ha un aspetto complessivamente morbido, con maggior percezione dell’ambiente sonoro. Ma forse quest’ultimo particolare è dovuto all’attenzione con cui i tecnici del suono hanno impostato la registrazione, servendosi di approcci che ovviamente mancavano negli anni ’60. I cambi continui di tempo e le poliritmie saranno d’ora in poi una costante dell’ascolto a cui ci si dovrà abituare. Segue Fall, dalla splendida conformazione tematica, che proviene da Nefertiti, album di MIles Davis del’67. Si tratta di un assoluto capolavoro della carriera del sassofonista dove, accanto a Miles, e oltre al piano di Hancock, vigilava la potente macchina ritmica di Tony Williams alla batteria e dell’incredibile Ron Carter al contrabbasso. Nella versione di Mannutza, ovviamente, manca lo strumento squillante di Davis e il contrappunto discreto di Shorter. Nonostante la bella versione in The Uneven Shorter l’eventuale confronto è ovviamente a favore del brano contenuto in Nefertiti. Sappiamo come non sia piacevole, oltremodo anche ingiusto fare raffronti di questo tipo ma che ci si creda o no, è difficile esimersi dal farlo in circostanze come questa. Comunque la band di Mannutza fa la sua figura. Tucci si danna l’anima per sovrapporre frantumazioni ritmiche e variazioni in corso d’opera. Il piano di Mannutza, almeno in questa occasione, fa trasparire numerosi nessi con un certo numero di pianisti storici legati all’hard be-bop. Focalizzandoli meglio farei i nomi proprio di Hancock e McCoy Tyner – guarda caso due pianisti che hanno accompagnato spesso Shorter nella selezione proposta dallo stesso Mannutza – ma anche penserei a Chick Corea e Bill Evans, dato che per quest’ultimo dubito che la sua fotografia proposta in copertina sia stata messa lì per caso…Juju è il brano tratto sempre dallo stesso album di Shorter sopra menzionato. La versione presente sul disco sembra leggermente più veloce e qui Recchia dimostra di meritare ampiamente il ruolo che ricopre, facendosi notare con un assolo molto persuasivo. Anche il piano si lancia in uno spazio che non ha niente da invidiare a quello di McCoy Tyner. ESP proviene da un altro album di Miles Davis con lo stesso nome, edito nel ’65. Sempre rischiosa la vicinanza con questi numi tutelari del jazz, soprattutto quando in questo pezzo Davis e Shorter danno prova di sé accompagnandosi l’un l’altro all’unisono nei momenti iniziali della traccia. Nell’album di Mannutza è proprio il piano a iniziare le danze con un assolo dalle note astratte che precede il tema di Shorter riproposto, ovviamente, sempre da Recchia. Da aumentare lo stipendio alla sezione ritmica, contrabbasso e batteria, per il gran lavoro che fanno alla base di tutto e che si continua, per altro, per tutta la durata dell’album. Iris è sempre un estratto dallo stesso ESP. Si tratta di un brano dolce, ammorbidito dal suono controllato di Recchia, pur meno caldo di quello di Shorter e dall’assolo di Sorrentino che arrotonda l’immagine complessiva con una bella cavata di note basse.

Speak no evil è un altro memorabile frammento della corposa discografia di Shorter che vien tratto dall’omonimo disco del ’64. In questo caso si taglia l’accompagnamento swingante dell’originale, molto marcato e sottolineato dall’unisono nell’apertura impattante che vedeva Freddie Hubbard affiancarsi al sax di Shorter. Giustamente Mannutza cambia un po’ gli ingredienti offrendo al brano un tocco di personale originalità. Dopo il minuto 04.20 circa, un ostinato passaggio di accordi di piano, su cui la batteria innesca i suoi balzi ritmici, crea una strategica tensione che preannuncia la ripresa finale del tema. Sempre tratto dallo stesso album Speak no evil, è ora la volta di Infant eyes, in origine uno slow nel pieno senso del termine ma che in Uneven viene attraversato da un flusso di corrente elettrica alternata, durante il quale si ascoltano tre passaggi diversi e susseguenti di tempo fino al tratto finale che però riprende la lenta modalità iniziale. Black Nile appartiene a Night dream del ’64. Molto swing nel brano originale, in ossequio allo stile sixties, con la tromba di Lee Morgan a fiancheggiare l’operato di Shorter. Anche in questo frangente Mannutza rimescola le carte, rallentando leggermente la corsa del pezzo e soprattutto sottraendolo al dominio swingante presente in Night dream. Grande sequenza di scambio di assoli tra Mannutza e Recchia, un vero piacere per l’appassionato di jazz e non solo. Nefertiti, indimenticabile momento tratto dall’omonimo album di Davis, subisce in casa Mannutza un’insolita e accattivante metamorfosi. Non nella melodia, ovviamente, che mantiene i suoi connotati, tra l’altro resa molto soffice dall’atteggiamento raccolto del sax, ma nelle divagazioni ritmiche, con la comparsa di irrequietezze quasi sudamericane a dare un colore più movimentato all’intero brano. A dire il vero anche nella traccia di Miles Davis comparivano tensioni alla batteria, con gli interventi urgenti dei piatti dell’incontenibile Tony Williams e i suoi irruenti tentativi di alterare la parte ritmica del pezzo. Diciamo che nella versione di Mannutza si avverte un aplomb che non compare affatto nella traccia nativa ad opera di Miles e del suo gruppo. Footprints chiude i giochi, tratto da Adam’s apple dello stesso Shorter e pubblicato nel ’67. Quello che si nota immediatamente è il passaggio dal ¾ originale ai tempi dispari di questa nuova versione. Ancora una volta contrabbasso e batteria diventano protagonisti, al di là del ruolo consolidato di sax e del pianoforte ed abbiamo la possibilità di gustarceli in due assoli, quello del contrabbasso circa a metà percorso e quello di batteria proprio sul finale.
Un disco, questo The Uneven Shorter, in cui l’”irregolarità” presente nel titolo si riferisce all’interessante e provocatorio “disordine” ritmico, un po’ come percorrere con un’auto elegante una strada accidentata per vedere come si comporta il motore sotto stress. In questo caso tutto regge molto bene. Paragoni con gli originali saltano invariabilmente agli occhi ma nel contesto generale Mannutza & C. fanno splendida figura e in alcuni momenti si fanno addirittura preferire agli illustri e storici riferimenti. Tranne forse nel caso degli album di Miles dove, variazioni dei tempi a parte, il confronto si fa un po’ più complicato.
Tracklist:
01. Yes or No
02. Fall
03. Juju
04. Esp
05. Iris
06. Speak No Evil
07. Infant Eyes
08. Black Nile
09. Nefertiti
10. Footprints
1 Pingback