R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Dato che la legge dell’ambivalenza domina il Mondo, anche in una disgraziata deriva come l’epidemia da Covid ci si può trovare un elemento – almeno uno – vantaggioso. Quindi, si prendano due musicisti bravi, chiudendoli necessariamente in una stanza coi loro “giochi” – in questo caso un pianoforte e un contrabbasso – per tenerli lontano quanto possibile dai virus e si potrà ottenere qualcosa di bello e inaspettato, ad esempio un lavoro come questo Stànzia, uscito qualche settimana fa per la Abeat. I due musicisti in questione sono giovani e con adeguati studi sia classici che jazz alle spalle. Tommaso Sgammini al piano è alla sua prima prova da titolare mentre Filippo Macchiarelli, il contrabbassista, ha già nel carniere due precedenti album, un lavoro uscito nel 2019, About songs registrato in solitudine con voce e basso elettrico e un altro disco più recente in quintetto, il maturo Il vento è fuori, di cui ricordo volentieri oltre alla musica una suggestiva foto di copertina. C’è da rimarcare inoltre la presenza aggiuntiva in tre brani di Camilla Battaglia, cantante dall’escursione vocale straordinaria – ma quante ottave copre? – e figlia di Stefano Battaglia e Tiziana Ghiglioni, due nomi già di per sé luccicosi nel panorama del jazz italiano. La Battaglia ha esordito giovanissima con il Renato Sellani Trio nel 2010 e ha proseguito il suo percorso ufficiale con l’etichetta Dodicilune in due lavori usciti nel 2016 e nel 2018, rispettivamente Tomorrow-2 more Rows of Tomorrows e Emit:Rotator Tenet. I tre attori di questo Stànzia non sono quindi certo alle prime armi e rappresentano parte di quella “meglio gioventù” del jazz italiano che di mese in mese, qui su Off Topic, riusciamo a recensire con sempre grande piacere. I due musicisti percorrono questa uscita discografica tra diversi brani originali e due standard, più il rifacimento di una composizione appartenente al soundtrack del film ll Maratoneta del 1976. Al di là dell’orecchio necessariamente ben temperato che questa musica richiede all’ascolto, con la sua struttura ricca di sorprese, ricordi classici e di memorie jazz-mainstream, occorre che in questa circostanza ci si lasci andare emotivamente a seguire l’immaginazione di questi musicisti, pensandoli in una stanza confortevole, che si scambino impressioni, sensazioni, risoluzioni melodiche, dando fondo al loro bagaglio ricco di sentimenti ed espressività. Non bisogna aver timore della formazione scarna, qui non si ascoltano esuberanze strumentali maniacali – del tipo “senti come son bravo” – ma nemmeno momenti di malinconica accidia. Se c’è una qualità su cui mi sentirei di scommettere, questa è la sincerità d’intenti, a metà tra uno sforzo introspettivo e la pura, semplice gioia “fanciullesca” di suonare, senza particolari rimuginazioni intellettualistiche.

Tutto oro rilucente, quindi? In realtà un piccolo appunto si può fare e riguarda la stesura dei testi. Credo che una delle cose più difficoltose per un autore di canzoni – sia leggere che improntate al jazz – consista proprio nel coagulare parole e musiche che abbiano entrambe lo stesso spessore emotivo. Purtroppo, nonostante la notevole impresa vocale della Battaglia, il testo spesso non scorre come dovrebbe e in alcuni momenti – come ad esempio in Cambi di luce – i termini utilizzati sembrano un po’ convenzionali. Però, essendo questo disco un album di jazz e non altro, in cui i momenti-canzone sono solo un paio, queste osservazioni alfine non incidono più di tanto sul valore complessivo di Stànzia.
L’apertura dell’album, il Preludio, è animato da suggestioni di romantica inquietudine, con il pianoforte che scava nel fondo dei sentimenti irrequieti innescati dalla pandemia e il contrabbasso che rimarca drammaticamente le battute, in un tempo che sembra essere in 5/4 almeno nella fase iniziale e conclusiva. Ottima esecuzione, incalzante, tra il ricordo dei grandi romantici europei ma con una sotterranea impronta jazzistica, ben sottolineata dall’assolo di Macchiarelli nei momenti centrali dello sviluppo. Poi è la volta di Carnevale e qui testo e musica sono comunque in equilibrio, il senso delle parole c’è tutto ma è soprattutto la voce della Battaglia, limpidissima e che in alcuni momenti tocca note molto alte – ho contato tre ottave secche di escursione in questo brano – con una purezza di emissione che mi ha ricordato Antonella Ruggiero nei suoi momenti migliori. La traccia ha una sua quintessenza melodica ben ribadita dalla sola musica che tra i due interventi vocali si stempera in una classica jazz ballad, con un contrabbasso potente e scuro, quasi alla Ron Carter. Joy Spring è il primo standard affrontato dal duo Sgammini-Macchiarelli, il cui autore Clifford Brown lo incise per la prima volta con Zoot Sims nel 1954, anche se la versione più conosciuta è quella realizzata insieme a Max Roach nell’album Clifford Brown & Max Roach, una di quelle meraviglie della Capitol Records anni’50 che ogni jazzofilo che si rispetti dovrebbe sempre annoverare nella sua collezione di dischi. Il tema è svolto rispettando le proprie cadenze be-bop, in piena scioltezza tra i ”fortissimi” degli accordi d’accompagnamento e la sequenza delle note tematiche. Sgammini, in fase d’improvvisazione, sviluppa inizialmente dei passaggi di accordi alla Monk, introducendo delle interessanti dissonanze che alterna alle veloci scale, mentre il walkin’ bass di Macchiarelli mantiene serrati i ranghi del ritmo. La pioggia è opera dello stesso contrabbassista e il piano simula con la mano sinistra le prime gocce d’acqua che cadono, in una ripetizione insistente sul Do centrale della tastiera. Poi il brano si sviluppa in uno stato d’animo che abita un metaxy tra la malinconia e l’inquietudine, con il contrabbasso che cava materia fusa dalle corde, veramente un suono carico e avvolgente. Sgammini è molto attento, qui, nella scelta di note pescate con attenzione, senza farsi prender la mano da eccessive sollecitazioni tecniciste. Gran punto a favore, quindi, per aver posto l’espressione dei sentimenti dinnanzi a tutto.

Su Cambi di Luce non vorrei ritornare, nonostante la bravura esecutiva dei tre musicisti…. Il brano Gaia appare inizialmente più indirizzato a sonorità contemporanee, salvo poi mescolarsi con una direttiva maggiormente melodica e tradizionale, con un bella ossatura portante organizzata dal piano. Si ascolta nella parte di mezzo un melodicissimo assolo di contrabbasso prima della ripresa pianistica. Molto interessante la fase che inizia circa al minuto 03.35, si ascoltano dissonanze pianistiche affascinanti e forse un leggero inciampo poco più avanti ma comunque questo Gaia risulta essere il pezzo più denso di esperienze diversificate incontrate fin qui. Punti di vista è più rarefatto con un deciso incipit di contrabbasso che sviluppa secondariamente il suo assolo tra gli accordi lunari del piano e le sue linee evolutive molto personali che attestano la maturità di Sgammini ma anche la sua voglia di ricerca. Non c’è nulla di scontato e di già sentito nella maggior parte di questi brani e la prova decisiva risulta dalla traccia che segue, Il Maratoneta, di Michael Small, che partecipò alla stesura della colonna sonora dell’omonimo film. L’arrangiamento di Macchiarelli si organizza con un lungo preambolo, prima che il tema vero e proprio di Small cominci a comparire. Un “sol” ostinato di piano costituisce un bordone per i vocalizzi della Battaglia che si sommano ad una serie di dissonanze rette sia dal piano che dal contrabbasso. Un breve intermezzo melodico con un’altra voce maschile che armonizza con quella principale ci porta verso il minuto 04.00 dove il tema originario, scritto da Small per solo piano, diventa finalmente riconoscibile. Si tratta comunque, già nella sua primitiva scrittura, di un brano tutt’altro che semplice nella linea melodica, costruito su una base arpeggiata con la mano sinistra che in questo caso, invece, viene modificata con l’invenzione del bordone di cui sopra. Contrabbasso e pianoforte s’incrociano in un riuscito dialogo tra i due strumentisti, mentre nel finale riaffiorano le voci. Arrangiamento coi fiocchi e controfiocchi, alfine, che altro non fa che corroborare la tesi della tensione di ricerca già precedentemente accennata. Si chiude con il sempiterno Thelonious Monk e il suo brano più iconico, Round Midnight, rispettosamente riarrangiato, com’è giusto che sia, salvaguardandone lo splendido tema, uno dei più belli dell’intera storia del jazz. Nella fase improvvisativa Sgammini prova a decostruire il pezzo e ci riesce con una maestria che mi ha ricordato la capacità di frammentazione e ricostruzione degli standard di un Martial Solal o di Franco D’Andrea, mentre il contrabbasso ha un che di solennità e di densità lirica nei suoni così pieni e corposi che accompagnano il piano.
Un ottimo lavoro, in definitiva, in cui il concetto di stanzialità e di chiusura suggerito dal titolo dell’album diventa quasi parte di un ossimoro se messo in contrasto con la dinamica di ricerca e il movimento tensivo che questa musica ha dimostrato di possedere.
Tracklist:
01. Preludio
02. Carnevale
03. Joy Spring
04. La Pioggia
05. Cambi di Luce
06. Gaia
07. Punti di Vista
08. Il Maratoneta
09. Round Midnight
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