R E C E N S I O N E
Recensione di Andrea Notarangelo
L’esordio sulla lunga distanza degli Yard Act, band di Leeds che riporta in auge un certo rock impegnato, va detto sin da subito, è esplosivo. Il quartetto post-punk, ricorda ai più i Clash, ma a mio modesto parere, i padri putativi di questo interessantissimo progetto vanno cercati da altre parti. I The Pop Group di Mark Stewart, ad esempio, contemporanei dei Clash, ma all’epoca già con i piedi ben piantati nella new wave e nella mescolanza di generi quali il dub, il funk e ovviamente il punk, vero e proprio motore di protesta che, dal momento della sua accensione a metà anni ‘70, non si è mai più spento. The Overload, anticipato l’anno scorso dall’eponimo esordio Dark Days, è un disco compatto nel quale i quattro riescono ad abbinare a un sound ruvido, una patina accattivante e che costringe l’ascoltatore a cantare e declamare i versi dell’opera.

Declamare, perché già dall’attacco della title track, si ha a che fare con un canto recitato e che in questo periodo storico non ha emuli. In Dead Horse risulta evidente il lavoro di produzione e la cura dei suoni che rendono questo disco un piccolo gioiellino. Nulla è fuori posto, dai cori, alla corda torturata nella chiusura del pezzo. Giunge così Payday, primo singolo e biglietto da visita degli Yard Act. La canzone è un vero e proprio inno dei nostri tempi: se da una parte, la retorica sullo sfruttamento dell’Africa non ha nulla di innovativo, sono però le liriche declamate a correggere il tiro e mostrare una spiccata originalità. Ecco un esempio del perché questo pezzo risulta godibile e pieno di verve: “What constitutes a ghetto? Is it growing your own lettuces in the potholes on the road. Do the locals have to eat them all if they don’t sell em, I call potholes concrete meadows of the soul / Cosa costituisce un ghetto? Sta coltivando la tua lattuga nelle buche sulla strada. La gente del posto dovrà mangiarle tutte se non le venderanno. Queste buche io le chiamo concreti prati dell’anima”.
Negli Yard Act convivono due anime, una tendente al passato post punk, l’altra, più vicina al presente art rock. Se per il primo caso, un buon metro di paragone possono essere i già citati Clash e The Pop Group, per il secondo, ecco entrare in gioco i Blur e i Franz Ferdinand, dai quali la band mescola sapientemente ritmi sghembi e orecchiabilità. Il cantante inoltre, sembra aver preso la grinta di Alex Kapranos e l’attitudine di Damon Albarn, ma là dove il leader dei Blur creava un puntuale spaccato sociale della situazione britannica, James Smith si adatta ai tempi e propone una disamina sulla globalità. Gli Yard Act hanno un grande punto di forza, suonano freschi ed attuali. Solo il tempo potrà dirci se il loro prender coscienza di ciò che li circonda resterà legato alla realtà, oppure diventerà un limite invalicabile. Il successo è a portata di mano, a patto che la loro formula preveda correttivi e un continuo rinnovamento.
Tracklist:
01. The Overload
02. Dead Horse
03. Payday
04. Rich
05. The Incident
06. Witness
07. Land Of The Blind
08. Quarantine The Sticks
09. Tall Poppies
10. Pour Another
11. 100% Endurance
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