R E C E N S I O N E
Recensione di Elena Di Tommaso
L’ineluttabile peso delle parole.
Spesso, nel nostro parlare, ci troviamo a fare i conti con parole che difficilmente pronunciamo senza avvertirne il peso specifico. Parole originarie, con un trascorso e un vissuto intensi ma che nel tempo sono state violentate e trasfigurate – spesso per esigenze di propaganda – tanto da non riuscire più ad afferarne, esattamente, il significato reale. Nasce quindi la curiosità di esplorarne il valore, contestualizzandolo al presente, analizzandone tutte le sfaccettature, le luci, le ombre, per cercare finalmente di riscoprirlo e comprenderlo fino in fondo.
Ed è proprio questo l’approccio verso il concetto di “Patria”, al centro del nuovo disco di Massimo Zamboni intitolato La mia Patria attuale e pubblicato per Universal Music Italia, il 21 gennaio scorso. L’album – prodotto da Alessandro “Asso” Stefana, storico chitarrista di Vinicio Capossela e a cui è affidata la maggior parte degli strumenti – arriva dopo dieci anni dall’ultimo progetto solista dell’ex Cccp-Csi. Per l’occasione il musicista e scrittore emiliano ha coinvolto alcune vecchie conoscenze (con cui aveva già collaborato negli ultimi anni in progetti musicali speciali) come Gigi Cavalli Cocchi, Simone Beneventi, Cristiano Roversi e Erik Montinari.

Il disco ha diversi elementi che lo caratterizzano, a partire dalla scelta dell’immagine di copertina che ritrae un Noolurin Sam, un attrezzo trovato per caso in un campo in Mongolia dallo stesso Zamboni. Si tratta di uno strumento utilizzato dagli allevatori per la pettinatura manuale del sottomantello delle capre, col quale si raccolgono le fibre da cui si ottiene il cachemire: attorno a quei denti arrugginiti, curvi e spigolosi, si intreccia il pelo del cachemire, la lana più soffice che esista. Un’antitesi che corrisponde, metaforicamente, ai paradossi che caratterizzano molti aspetti tipici del nostro Paese, e sui quali l’autore pone il proprio punto di osservazione.
Un altro elemento interessante è il titolo de La mia patria attuale che sembra avere dentro di sé una sorta di dicotomia temporale: il termine “patria” ormai inusuale e desueto e la parola “attuale” che, nella lucida narrazione musicale, è capace di volgere lo sguardo al presente in maniera disillusa e di incentivare al tempo stesso una reazione, un moto, uno sforzo. Un’attualità che chiede, ora, sacrificio e impegno ai propri cittadini.
Infine, ciò che più risulta evidente, è l’incedere cantautorale del disco, in cui nonostante siano presenti echi dei CCCP e CSI, il musicista emiliano apre la via ad un nuovo percorso musicale, scegliendo un linguaggio più “italiano”, più riconoscibile. Si prende la responsabilità interpretativa di esaminare un concetto difficile – quello di Patria appunto – e sceglie di comporre e cantare come se a farlo fosse un pezzo d’Italia, con tutti i pro e i contro. Lascia che sia la sua voce a guadagnare il centro, facendosi spazio tra arrangiamenti scarni, sonorità acustiche e percussioni vive al posto di ritmi elettronici. Predilige la forma canzone nel senso più classico del termine e l’associa ad un lessico di stretta inattualità.
I dieci brani compongono un racconto spietato e disincantato del nostro Paese, seguendo un itinerario variegato anche negli arrangiamenti, capace di “allargare il discorso” alternando parti più forti e declamate ad altre quasi sussurrate o parlate.
A cominciare il viaggio nel folk acustico cantautorale è il brano Gli altri e il mare, una ballata malinconica giocata sugli arpeggi di chitarra acustica. Una delle vie di entrata per eccellenza nel nostro Paese è proprio il Mar Mediterraneo, culla di storia e bellezza ma anche di morte e disperazione. Da qui una sorta di invocazione a una divinità da venerare e da maledire al tempo stesso, un’onda che si infrange sugli scogli della disillusione e dell’indifferenza tra echi di canzoni di Deandreaina memoria. A seguire il primo singolo che ha anticipato l’album Canto degli sciagurati, una galoppata sonora in cui le percussioni disegnano la ritmica continua e nervosa del brano che sembra, verso la fine, voler caricare ad una ribellione per il riscatto del “popolo minuto” (ultimi, poveri, sciagurati, diseredati…). Una invocazione agli Dei (“Mamma, Madonna degli sciagurati”) che sembra perfetta per una accoppiata con Vinicio Capossela. Con Ora ancora, brano apparso nel 2012 nel live 30 anni di ortodossia si intrecciano fraseggi malinconici di chitarra che narrano di una storia attuale (“ora”) che si ripete ciclicamente (“ancora”), come una nenia, con le sue ingiustizie e le sue oppressioni. L’unica soluzione possibile che si prospetta sembra essere quella di “andare via da qua e non tornare”: rimane chiara però l’impossibilità di accettare il sentimento di una triste rassegnazione.

L’album prosegue con la sua alternanza di atmosfere con Italia chi amò in cui si fanno strada chitarre elettrice dai toni scuri e minimali insieme a pattern di batteria. Il tono solennemente declamatorio e le distorsioni ombrose fanno emergere chiaramente l’anima CCCP/CSI, in un attacco contro i finti eroi nazionali (“Mano sul petto, pronto alla morte un farabutto con la consorte. Cosa diceva l’urlo? Italia chi amò?”). La denuncia contro gli stessi soggetti sembra proseguire nella traccia successiva Il nemico, che non abbandona le sonorità delle due band co-fondate da Massimo. La narrazione assume una dimensione quasi epica tra archi e chitarre elettriche: si fa reale la consapevolezza di essere sotto attacco di chi usa l’arroganza come arma da combattimento e negli occhi l’immagine di un assedio volto a mettere a fuoco chi urla e sbraita, chi inventa nemici sempre nuovi per compattare il popolo e tenere saldo il proprio potere. “Dimmi padre”, “Dimmi madre” sono gli incipit delle strofe con le quali l’autore sembra interrogare quel passato fatto di esperienze – e dunque l’unico capace di dare risposte – su come riuscire ad affrontare questa battaglia. “Tira ovunque un’aria sconsolata” è una bella prova di cantautorato classico nella quale si snocciolano, una dietro l’altra e con un sorriso amaro, desolate riflessioni sulla vita quotidiana (“vagabondo nel salotto, và pensiero all’Enalotto (…) e di blu, dipingiamoci di blu per sfuggire ad Equitalia, per salvare la famiglia, rimandare la bottiglia, cedo l’oro di mia figlia”). In questa ballad dal sapore guccciniano non manca però un bagliore che disegna il contorno di un futuro ricco di speranza (“Ma verrà il tempo che germina il grano, s’aprirà un solco sui volti infelici, verrà quel tempo, ci sembrerà strano di essere stati l’un l’altro nemici”). Il brano successivo “Nove ore” è una rock ballad con sonorità dylaniane in cui la ritmica è sostenuta da una chitarra acustica che incontra poi una elettrica capace di scavare nelle viscere della canzone. La traccia è un elogio all’accettazione dei propri limiti a dispetto delle false aspettative che ognuno di noi si cuce addosso (“la scelta impopolare di dormire nove ore”). La title-track, invece, lascia ampio spazio al pianoforte che sostiene l’architettura musicale con un basso onnipresente, svisature di chitarra elettrica ed e-bow che generano tensione avvolgente. La mia patria attuale è un brano-manifesto in cui Zamboni parla di “bellezza offesa”, quella di un Paese fatto di “talenti malgraditi” in cui il più grande peccato è l’incapacità di riconoscere la ricchezza che ci circonda, fatta di volti, storie di sconosciuti, volontari che, con coraggio e salvaguardandosi dalla loro stessa Patria, portano avanti i propri progetti in un’ottica di condivisione. Una parte d’Italia che insiste di volere esistere. Penultima traccia dell’album è Fermamente collettivamente, un racconto toccante, poetico e disilluso di un mondo andato, crollato, senza lasciare spazio ad un futuro diverso. L’avvolgente insieme di archi sembra accompagnare una vera e propria preghiera. Sembrerebbe perfetto per un duetto con Nada. A chiudere il lavoro è Il modo emiliano di portare il pianto, che inizia con una intensa parte recitata e confluisce, nei ritornelli, in una sezione di fiati dai toni quasi orchestrali che fanno pensare ad una marcia funebre. Qui Zamboni sostituisce l’etica del lavoro alle illusioni consolatorie, con la consapevolezza che certi cambiamenti andrebbero accettati e certe vecchie idee abbandonate, come ad esempio quella dei confini (“questa terra indocile non teme di farsi attraversare”).
La mia patria attuale, disco nato durante la pandemia, regala una immagine estremamente nitida del reale e contiene dentro di sé tutta una serie di emozioni diverse legate a rabbia, disillusione, incanto e speranza. È un lavoro ricco di spunti, che riporta ragionamenti di un osservatore attento e critico, in continua evoluzione artistica, impegnato in una sorta di viaggio letterario/solitario e che invita, in maniera sincera e trasparente, a riflettere sullo stato attuale del nostro controverso paese.
Tracklist:
01. Gli altri e il mare
02. Canto degli sciagurati
03. Ora ancora
04. Italia chi amò
05. Il nemico
06. Tira ovunque un’aria sconsolata
07. Nove ore
08. La mia patria attuale
09. Fermamente collettivamente
10. Il modo emiliano di portare il pianto
Foto © Diego Cuoghi
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