L I V E – R E P O R T


Articolo di Arianna Mancini, immagini sonore di Mirko Mancinelli

Partecipare ad un concerto dei Sycamore Age, progetto artistico aretino, è come prendere parte ad un rituale mistico, in cui si materializzano pozioni sonore dalle molteplici sfumature e folgoranti densità. Si ha la netta sensazione di vedere i devoti allievi di Ermete Trismegisto all’opera sul loro palco-laboratorio, intenti a sperimentare esplorazioni. Tale “liturgia” si è celebrata lo scorso 11 marzo allo Spazio Webo di Pesaro, un posticino intimo ed accogliente, con le giuste luci per ospitare un simile evento.
Si arriva sempre con netto anticipo per scegliere i posti migliori e godersi quella magica attesa che precede l’ingresso degli artisti sul palco. Gli alchimisti sono pronti: Daniel Boeke (clarinetti, voci), Franco Pratesi (violino, synth, mandolino, voci) Luca Cherubini Celli (batteria, percussioni, voci) Stefano Amerigo Santoni (chitarre, basso, percussioni, voci) accompagnati dalla voce poliforme e sinuosa di Francesco Chimenti (piano, chitarre, basso, violoncello), una stretta reincarnazione di Jeff Buckley.
Dopo l’ormai noto fermo forzato, i Sycamore Age hanno finalmente ripreso il tour di presentazione del loro ultimo lavoro Castaways, uscito nel dicembre 2020 per Woodworm Label. Dopo innumerevoli ascolti nel giradischi, l’anima è spalancata per riceverlo dal vivo.

I suoni si materializzano, prendendo vita: “I fell, tired, all of the sudden waiting for the spring/ Wake me up from the dust, I’ll try to forget my dream”. Apertura con Once Again, è tempo di risvegliarsi alla vita. Per l’interconnessione dei sensi, durante l’esecuzione del brano, irrompono nella mente le immagini del video diretto da Frances Von Fleming in cui il susseguirsi di immagini, come se fossero tratte da un evento onirico, aprono un varco alla curiosità. Senza indugi veniamo trascinati in Gravity, i cambi tonali e le distorsioni luccicano tutt’intorno, creando un magico magnetismo.
Prima di proseguire il viaggio la band si ferma un attimo, Francesco ringrazia il pubblico e lo staff del locale presentando il prossimo brano: “Castaways without a Storm”, il primo nato del nuovo album da cui poi ha preso forma tutto il disco. Impossible non sentire una scossa al cuore nella strofa “I feel our stars are drawn together/ I hear you pray for the weather to bring gales/ I know your needs are wearing human leather”, una ballata in stile Strurm und Drang. Le asprezze si amalgamano a implorazioni, in chiusura le onde sonore generate dal mescolarsi del violino e del clarinetto acuiscono il senso di fugacità.

Improvviso salto a ritroso e rottura punk-psichedelica con My Bifid Sirens (tratta da Sycamore Age, 2012) che irrompe squarciando i toni. Entra con imponenza, con energico splendore, come una divinità vendicatrice che giunge per chiudere il cerchio rimasto aperto. Tutti gli strumenti, voce inclusa, si esasperano impazziti come se fossero spiritati, per poi confluire in una sommessa ed essenziale chiusura in cui rilucono piano e violino. 
Ritorniamo a Castaways sulle note di A Maze, sale la tensione arricchita da arrangiamenti che alternano fughe e momenti sincopati. L’energia propulsiva si espande, che fatica dover restare seduti!   
Mentre la formazione inizia ad accennare l’intro, Francesco presenta il prossimo pezzo: “Questo brano è sempre tratto dall’ultimo disco, una canzone che avrebbe voluto essere un quadro, ma non ce l’ha fatta, una natura morta per la precisione, Still Life”. L’atmosfera si placa in un fluire di divagazioni più morbide, modellate da un’elegante e sofisticata compostezza che si fa ancora più splendente quando inizia Ibiza ’87, brano che chiude il disco. Siamo tutti sospesi nell’etere a levitare con gli strumenti e la voce che giocano a sfiorarsi, come in un rituale di seduzione. Musicalmente è una sorta di soliloquio cantato, nostalgico e sensuale, che cela un testo intessuto di nebbie e solitudine.
At the Biggest Tree ci riporta all’album omonimo d’esordio, il ritmo incalzante corre e arriva nel sangue, che riprende a pulsare vibrante. Gli arrangiamenti alla deriva caricano l’atmosfera di rapimento, come se tutti fossimo proprio presso l’albero più grande per assistere all’incontro di cui si parla nel testo.

La fluttuazione nella discografia muta nuovamente per ritornare al presente con To Waste Some Time, piccolo spazio per abbandonarsi a desideri: “Hold my heart ‘till the end of time/ while the dawn is taking time to rise”, ma non c’è tempo per dilungarsi in sogni perché Frowning Days, Odd Nights irrompe riportandoci ai tempi di A Perfect Laughter (2015). Il piano che vaga in cerca di un centro fa da intro, a cui si uniscono gli altri strumenti con passi cupi e felpati per poi entrare in quell’esatto vortice tipico, di quando gli alchimisti decidono di reinventarsi e di non poter esser descritti a parole; perché assistere ad un loro evento dal vivo è un’esperienza ipnotica. Quel particolare senso di trance che la musica è in grado di suscitare.  
Elegante ed eterea come un raggio di luce, arriva lei: Binding Moon. Immancabile, necessaria, folgorante. Un simbolo fondamentale che sancì, come un sacro sigillo l’inizio di tutto, era il 2011. Il classico brano che non ti sazia mai, perché una volta finito senti sempre la necessità di riascoltarlo nuovamente. Vissuta poi così, a due metri dal palco, con tutti i suoi mutanti bagliori equivale a vivere un’esperienza mistica.  

Particelle di magia splendono ancora nell’aria, quando Francesco introduce quello che sarà, purtroppo, l’ultimo pezzo: Dalia, tratto dal loro secondo album A Perfect Laughter. Non ci crediamo, urge il bis, richiesto a gran voce, il tempo è trascorso troppo in fretta, e In the Blink of an Eye chiude la serata, restiamo sul loro secondo lavoro. È davvero l’ultima canzone e la si deve assaporare con tutti i sensi. Il brano inizia con toni diafani per poi salire e perdersi in umoralità sonore dalle tinte lunatiche e cangianti, ma proprio quando il pezzo sembra finire, riprende vita su se stesso e attratto da un crescendo continuo brulica fino ad esplodere. Francesco fa un balzo, scende dal palco, inizia a percuotere un quadrello di ferro mentre gli altri strumenti virano ancora più alti seguendolo, e proprio quando l’apice è raggiunto, tutto si placa d’improvviso. L’incantesimo è terminato, l’atto psicomagico ha sortito i suoi effetti.
Due amici di Fano che mi avevano raggiunto per partecipare alla serata, concordi esordiscono con: “Sono una bomba questi!! E dove si erano nascosti finora?”
Risposta ovvia, per trovare un tesoro si deve sempre scavare.
Ringrazio Mirko Mancinelli per il supporto fotografico ed emotivo, lo staff dello Spazio Webo per le premure, forza ragazzi continuate a resistere! Non ultimi i Sycamore Age perché regalano sempre emozioni intense e viscerali con il loro virtuosismo anarchico, il Sycamore Sound.