R E C E N S I O N E
Recensione di Arianna Mancini
“Quale sarebbe il tuo ultimo gesto, cosa faresti prima della fine?” è l’interrogativo epocale che si cela dietro Pompeii, ultimo lavoro di Cate Le Bon, al secolo Cate Timothy.
Il sesto lavoro full-length della cantautrice gallese, uscito per Mexican Summer, ha visto la luce a tre anni da Reward, nominato al Mercury Award come miglior album dell’anno.
Pompeii è una delle tante creature che ha avuto genesi e compimento nel biennio maledetto. Un album introspettivo e quasi interamente solista, composto e registrato in solo session a Cardiff, dov’è cresciuta. Scritto principalmente al basso, strumento che Cate predilige per la composizione, sono suo artificio anche le chitarre e synth. Fanno eccezione, le percussioni e la batteria, inserite a distanza dall’Australia, a cura di Stella Mozgawa, frequente collaboratrice di Cate, ai fiati: Euan Hinshelwood al sax e Stephen Black al clarinetto.
La cantautrice gallese, che in passato aveva prodotto lavori per Deerhunter e John Grant, è anche qui coproduttrice, e ha al suo fianco come collega in sede di produzione Samur Khouja, suo fedele collaboratore di lunga data.

Un disco che vibra di certe atmosfere sonore che si respiravano negli 80’s. Musicalmente ci muoviamo in una sfera caratterizzata da un elegante, minimale ed aristocratico art-pop sfumato da una tiepida vena new wave, che segue l’ideologia del “less is more”, in cui minimalismo non va inteso come mancanza bensì essenzialità, di quelle che scavano nel profondo come per contenere l’intensità delle emozioni.
Le nove tracce che compongono l’album possono essere concepite come una lunga suite electro pop, aliena da virate esaltanti o epici momenti di rottura. Un gioco di contrasti: apparentemente scarno in superficie ma che mostra quanto peso possono avere i momenti più semplici, perché aprono varchi a riflessioni. Questo è un album concepito in un momento di “distorsione temporale”, come asserisce l’autrice stessa, precisando: ”Ho composto il nuovo lavoro in una casa in cui ho vissuto 15 anni fa, lottando con l’esistenza, le mie rassegnazioni e la fede. Mi sono sentita colpevole di disordine, ma mi sono difesa dai sensi di colpa imposti dalla religione e dal peccato originale”. Nelle increspature interiori di questa contemporaneità alterata, incastrata in una pandemia, eco-traumi e cambiamenti climatici c’è la necessità di scrutare le profondità della natura umana, riflessioni sul desiderio, sul nostro scopo, su quale sia il nostro posto nel mondo. Il caos nell’incertezza del cambiamento, che però contiene una sondabile bellezza, se si è disposti a guardare.
Mai tralasciare la veste di presentazione di un disco, e qui l’artwork è la trasposizione di un dipinto di Tim Presley (aka White Fence), amico e compagno di avventura nei Drinks, affisso nella stanza-studio della creazione, che ritrae Cate con uno sguardo indagatore e perplesso, nelle vesti di una suora-crocerossina con tanto di appropriato copricapo. Un qualcosa di enigmatico, che non lascia spazio a fulminei incanti. Lo stesso sguardo con cui Cate scruta la realtà intorno e dentro sé.
Il coraggioso brano di apertura, Dirt on the Bed, si muove sul filo dell’espansione. La sezione dei fiati in dissonanza, avvolta dalla morbida linea di basso, gioca a nascondino con il synth e la chitarra mansueta. Assente la batteria che si fa da parte, lascia la scena agli altri strumenti che si muovono in discordanza, con la voce che sembra effettuare esercizi di stile fra vocalizzi e ammonimenti.
Le vibrazioni trascorse cambiano con Moderation, brano pop ben strutturato, immediato, velato da un morbido riverbero. Il suo arrangiamento sottile presenta synth dal suono freddo, batteria nebbiosa e un sassofono scintillante. Corposa la linea di basso, che tiene la trama sonora, come le briglie di un cocchiere. Questa facciata sonora apparentemente rilassata nasconde sottofondi di intenso sentimento fra sconforto e consapevolezza “Moderation/ I can’t have it” e confessione “I get by pushing poets aside/
‘Cause they can’t beat the mother of pearl/ I quit the Earth, I’m out of my mind”.
In assenza di terremoti sonori veniamo accolti da French Boys, acquatica, sofisticata di decadente svagatezza che precede la title track, Pompeii che nonostante evochi motivi apocalittici, anche interiori, “Did you see me putting pain in a stone?”, cela un ottimismo nascosto “Every fear that I have/ I send it to Pompeii”.
Si passa poi ad Harbour,un momentopop meno sofisticato che cede il passo all’atmosfera più ritmata e torbida di Running Away, in cui spicca un lussureggiante tocco di sax ed un synth gommoso mentre Cate confessa “Take your gloves off/ I’m not scared anymore”, e sul filo del timore, ora assente, Cry Me Old Trouble ci conduce al minimalismo “mantrico”, un brano essenziale e liscio come l’interno di un’abitazione giapponese.
I toni cominciano a risalire con Remembering Me,un mutamento giocoso e ritmato, spruzza bagliori inaspettati che saltellano fra il falsetto sfumato, il succinto assolo di chitarra e il synth dilatato.
Chiude il disco Wheel, un commiato che prende la forma di un’elegia all’amore in un presente alterato. “I do not think that you love yourself/ I’d take you back to school/ And teach you right/ How to want a life/ And it takеs more time than you’d tendеr/ Over me”. Il patimento vissuto sovrasta l’amore accolto, e non c’è mai una formula per portarlo ad un lieto compimento.
Il sesto lavoro di Cate Le Bon comunica carisma, con testi massici di una profondità e conflitto interiore devastanti in cui però la trama sonora risulta essere sempre un po’ prevedibile, aliena da climax o apici dirompenti. Una serie di volteggi infiniti ma che non culminano in acrobazie; e visto il talento della sua creatrice, lei avrebbe tutte le carte in regola per stupirci con un doppio salto mortale e altri giochi funambolici, rimanendo illesa.
Pompeii evoca metaforicamente l’apocalisse, un’incombente catastrofe ma la supera, la chiave di volta è già contenuta in una strofa del brano che apre l’album, Dirt on the Bed: “Sound doesn’t go away/ In habitual silence/ It reinvents the surface/ Of everything you touch“. Tutto ciò denota trasformazione e mutamento, nelle loro accezioni creative, e dove troviamo “fecondità”, non ci può essere catastrofe.
Tracklist:
01. Dirt on the Bed
02. Moderation
03. French Boys
04. Pompeii
05. Harbour
06. Running Away
07. Cry Me Old Trouble
08. Remembering Me
09. Wheel
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