R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Nel nostro immaginario il batterista è l’elemento notoriamente più “eccentrico” all’interno di una qualsiasi band. Ci ricordiamo tutti le mostruose macchine percussive di molti gruppi rock e le esibizioni un po’ narcisistiche e muscolari di certi musicisti molto attenti, oltre al loro indubbio apporto ritmico-tecnico, anche all’apparenza un po’ maudit del loro ruolo. Nel jazz questa presenza esibizionista non è mai stata così evidente ed inoltre l’attività di composizione di molti storici batteristi ha contribuito ad una maggior integrazione con gli altri strumentisti, avendo come obiettivo la creazione d’un insieme organico e produttivo, piuttosto di un’esposizione autocompiaciuta. Anche all’interno della categoria ci sono però orientamenti diversi. C’è chi punta sulle poliritmie, sulla pulsazione ritmica, insomma sul motore cardiaco dell’intera attività strumentale di una band. C’è invece chi, come ad esempio Massimo Barbiero o appunto Francesco D’Auria, sembra più attento ad utilizzare le percussioni come fossero elementi melodico-armonici, alla ricerca di una personalità sonora che non faccia quasi avvertire le evidenti differenze di natura con altri strumenti musicali. D’Auria è uno di questi, forte di un’esperienza vastissima, avendo suonato nella sua carriera in molti contesti e con musicisti di estrazione e tendenza eterogenea. Nonostante questo suo ultimo lavoro Lunatics lo veda come unico “leader” in un superquartetto tutto italiano, in realtà la discografia di D’Auria è ricca e composita e a parte le numerose collaborazioni, si contano oltre una dozzina di pubblicazioni discografiche in cui appare il suo nome come co-protagonista. A fianco del batterista troviamo Tino Tracanna al sax soprano, Umberto Petrin al pianoforte e Roberto Cecchetto alla chitarra e agli effetti elettronici.

Tre solidi musicisti navigati, in grado di assecondare non solo gli stimoli di D’Auria ma anche d’integrarsi tra loro con naturale semplicità. Il percorso compiuto da questo quartetto “bassless” si diversifica tra brani molto melodici ed altri più minimalisti e liberi, senza però fossilizzarsi od insistere troppo su eventuali passaggi ostici e mantenendo il tono complessivo sempre piacevole e fresco. Si ascolta una scrittura spesso introversa ma animata da un intento di ricerca sonora, una progressiva indagine tra le pieghe del suono, esaminate alla lente d’ingrandimento per coglierne le sfumature emotive e le fioriture armoniche. Il modo di suonare di D’Auria è quindi creativamente irregolare, eclettico, mai invasivo né preponderante, a tratti persino velatamente enigmatico.
Monetina apre l’album in modo quasi vezzoso con delle percussioni delicate in sottofondo e gli altri strumenti che entrano uno dopo l’altro, sottolineando un ritmo saltellante e discreto. Il soprano di Tracanna improvvisa mentre chitarra e piano sparpagliano le loro sonorità in maniera maculare, strutturando degli spot di colore attorno al sax. Cecchetto, nella seconda metà del brano, lavora un po’ sulle corde basse – ricordiamo che in questo disco manca il contrabbasso – prima dell’intervento astratto del piano che lavora poche e inusuali note. Suoni che appaiono volutamente rarefatti, alfine e un po’ scherzosi. Meeting’s Dance è un breve accenno dall’aroma mediorientale sostenuto dal sassofono danzante di Tracanna e da una miscela percussiva che sembra portata anche dalle corde “stoppate” con la mano della chitarra di Cecchetto. Ne I Sogni di Pietro si avverte l’handpan suonato da D’Auria con quella tipica timbrica vetroso-metallica che traccia un continuo battito di sottofondo. La chitarra pare doppiare la percussione mentre il piano lavora armonicamente con pochi ma efficaci accordi, idonei a organizzare uno spazio tridimensionale dove poi s’inserirà il soprano con una semplice, nostalgica melodia. Quando Petrin prende le redini appare chiara la trama pianistica, in un breve assolo in cui si avverte molta della sua sapienza armonica. Poi è Tracanna ad offrire le sue note brillanti, precedendo la chiusura del brano e inserendosi in un insolito dialogo a mezza voce tra handpan e piano. A Little Story appare come un’improvvisazione libera e breve, quasi uno scherzo. È la volta di I Found You, brano estremamente rarefatto, dotato di un misterioso magnetismo melodico che si dimostra una lenta, classica ballad il cui tema viene introdotto quasi sommessamente dalla chitarra – armonizzata dal piano – prima che il sax se ne appropri scandendo le sue note prolungate e materiche. Petrin lavora molto sulla chiarezza espressiva e la batteria utilizza il brushing come nei casi più classici di accompagnamento in ballate lente come questa. La scrittura punta sull’essenzialità e sulla comunicativa, piuttosto che sull’esibizione tecnica e questa è peraltro una caratteristica riscontrabile in tutto l’album.

We Just Want to Be Free, come allude il titolo del brano, è un momento liberatorio che inizia molto anarchicamente per poi instradarsi in un ritmo più regolare impostato dalla batteria. Il sax lavora inizialmente su una nota unica per poi ancorarsi in un reiterato intervallo di ottave, mentre la chitarra usa graffiti elettronici in sottofondo. Come in una progressiva strettoia sonora la musica si chiude spegnendosi via via per annullarsi al fine in un ultimo battito percussivo. Princess Linde è un pezzo di Michel Godard molto etereo in apparente struttura inizialmente modale, suonato magnificamente da Tracanna, con quelle sue note lunghe, molto piene e ariose. L’accompagnamento è calibratissimo e Petrin, soprattutto qui, interviene in modo lirico, facendo respirare i suoni del suo piano quasi con intento trasognato. Chiude il sax, allacciandosi nel suo intervento a quella che può sembrare una melodia dal carattere popolare. Gran brano, sia per quello che riguarda la struttura compositiva che per la leggiadra esecuzione. Soft Wind è una composizione di Cecchetto dal carattere intimista, anch’esso pieno di spazi e di silenzi che mi ha ricordato certe composizioni di jazz nordico, con atmosfere fredde e nitide e colori notturni. Gran parte del mood, in questo caso, va non solo al sax soprano veramente stellare di Tracanna, ma anche a quei piccoli grappoli di note di chitarra che sorreggono la trama musicale di base. It’s time to get up interrompe l’abbandono sognante di questi ultimi brani per ricordarci che c’è D’Auria, sullo sgabello della batteria. Ma invece di aspettarci un set temporalesco di rullate ascoltiamo invece un equilibrato, consapevole saggio di come ci si può relazionare, con garbo e fantasia, ad un approccio ritmico di efficace essenzialità come questo. I’m Lost è un frammento di meno di un minuto di un fugace appunto di chitarra e percussioni. Ultimo brano è Il Cielo, desertica visione in cui le percussioni sembrano stelle nella notte e il sax un’umana riflessione sulla vastità della Natura. Un suono elettronico crea un bordone di fondo che accompagna l’evoluzione del pezzo fin quasi alla sua conclusione, sigillata da un “bacio” di saluto del sassofono.
Quello che è certo, come osservazione conclusiva, è che con Lunatics, D’Auria imposta un ennesimo lavoro collaborativo dove la sua capacità si fa notare sempre con discrezione, sospendendosi ad una certa altezza nell’etere sonoro da dove dirige gli altri strumentisti, mantenendoli legati con i suoi poco appariscenti ma essenziali appunti ritmici.
Tracklist:
01. Monetina
02. Meeting’s Dance
03. I sogni di Pietro
04. A Little Story
05. I Found You
06. We Just Want to Be Free
07. Princess Linde
08. Soft Wind
09. It’s Time to Get Up
10. I’m Lost
11. Il cielo
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