R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non staremo certo a discutere sul fatto che Tord Gustavsen possa essere definito un musicista minimalista oppure no. Sappiamo per esperienza che le definizioni lasciano il tempo che trovano. La musica, se è buona, parla per sé. Certo non si può pensare che Gustavsen sia un dissipatore di energie ed un produttore di note a macchinetta. Quello che egli afferma, riguardo la dinamica della sua creatività, non si discosta poi molto da quello che fanno tutti gli altri musicisti. Ispirazione, cioè qualche nota che proviene dalla Musa, e poi solido lavoro matematico di sviluppo. Quello che fa la differenza è che Gustavsen compie una serie di tagli atti ad asciugare quanto più possibile le proprie melodie aggiungendo solo qualche corona di note ogni tanto, qualche cromatismo per dare l’impressione che vi sia comunque un po’ di movimento tra le battute. Resta bassa l’entropia del sistema, l’ordine rimane interiorizzato e ciò che ne esce richiede attenzione focalizzata da parte nostra ed un po’ d’immaginazione aggiuntiva. C’è molta continuità compositiva nella storia musicale dei suoi lavori in trio e ad esser sinceri in questo suo ultimo album – Opening – non si evidenziano salti quantici tra un brano e l’altro e nemmeno interruzioni concettuali con il precedente disco The Other Side. Gustavsen suggella in questo modo una collaborazione con ECM che dura da vent’anni, costruita con melodie che non seguono alcun algoritmo, non si programmano nelle usuali strutture metodiche espressive della forma canzone che si usano negli standard jazz, ad esempio.

L’impressione è che queste composizioni quasi si sviluppino e si sfiocchino strada facendo, inserite in un contesto poetico che sembra possedere una patina antica, ancorata ad una forte componente classico-romantica ma allo stesso tempo imbevuta di suadenti pulsioni jazzistiche. Il silenzio resta comunque uno dei più importanti protagonisti dell’album. Non nel senso che vi siano soste di minuti tra una nota e l’altra ma la cruda sobrietà interpretativa di questa musica esige respiri e pause che spesso non ci aspettiamo. L’insieme di tutto ciò, comunque, rientra nel profondo lirismo dell’opera, che a tratti mostra persino qualche aspetto d’ispirazione liturgica. Gustavsen Trio è alla sua quinta uscita discografica ma il leader ha almeno una decina di altre incisioni alle spalle, sia in solitudine che in duo, in quartetto o comunque con altre formazioni. Per questo Opening c’è una new entry tra i componenti, cioè il contrabbassista Steinar Raknes al posto di Harald Johnsen, che si occupa di gestire anche qualche effetto elettronico. Alla batteria resta Jarle Vespestad, prezioso collante tra gli altri due musicisti.

Il primo brano che s’incontra è The Circle. Come sempre i tasti sericei del suo piano elaborano linee melodiche immediate, dense di comunicatività poetica, con un utilizzo delle dissonanze al minimo sindacale. La ritmica si mantiene in sordina attraverso rarefatte note di contrabbasso e il solito gioco di piatti della batteria che è quasi una costante nel jazz proveniente dal nord Europa. Findings è una brevissima introduzione ad un brano che proviene dal bagaglio tradizionale della musica svedese, Visa från Rättvik (Vista dalla città di Rättvik). Gustavsen riferisce di aver subito l’influenza, in questo caso, da Jan Johansson – uno tra i più grandi pianisti svedesi e non solo nell’ambito jazz – che ha riprodotto il medesimo traditional in un vecchio album del 1964, Jazz pa Svenska. La traccia in questione è quasi completamente irriconoscibile, se non nelle ultime battute, tanto è stato smontata e rimodellata in un personalissimo meta-folk d’insondabile malinconia. Opening, con quel suo bordone proposto da Raknes, “apre” a suggestivi cromatismi orientali che modellano lentamente la musica come fosse creta. Una nebbia emotiva avvolge la composizione in una dolente riflessione esistenziale in cui si raggiunge uno dei massimi valori di sintesi che caratterizza l’intero album. The Longing, imbevuto d’intimità, è tra i migliori acquerelli che Gustavsen ci propone, con un andamento che se fosse stato trasformato orchestralmente avrebbe ricordato il suo compatriota Edward Grieg nei Pezzi Lirici. Con Shepherd Song sembra di ritornare al penultimo Opening, date le inflessioni orientaleggianti e la ricomparsa del bordone. Ma un po’ prima della metà il brano assume i connotati di un ibrido tra la caratteristica spigolosità jazz e il costante corteggiamento classico, con un bell’andamento melodico che si ripresenta più volte in corso di svolgimento, fino all’assorta chiusura col progressivo spegnimento delle dinamiche ritmiche. Helensburg Tango assomiglia ad una marcia funebre, più che a un vero e proprio tango. Melodia bellissima, senza dubbio, ma dalla cadenza così triste da ricordarmi la Sonata n.2 op.35 in Si bemolle minore di Chopin piuttosto che un’atmosfera di rimandi d’Argentina…

Re-Opening si regge su una dinamica sonora dalla ritmica più avvertibile, anche se i tempi sono come sempre lenti ed assorti. Il canto melodico è spezzato e sfuggente e si mantiene in contatto con la dimensione modale già percepita più volte in alcuni brani precedenti. Findings II è una miniatura romantica piena di Sehnsucht, forse anche eccessiva – il rischio, a lungo andare, è quello di una certa stucchevolezza. Meglio con Stream che si presenta con i connotati di una classica jazz ballad. Piano rarefatto, alle volte con dinamiche sonore minime, colmo di penombre malinconiche. Gli equilibri strumentali sono perfetti, “nulla di troppo” come recita un adeguato precetto delfico. Il trio procede con un moderato crescendo innescato dal solo di contrabbasso, dalla cavata piacevolmente fuligginosa e piena, per poi concludere facendosi avvolgere da un progressivo incremento di silenzio. Ritual è l’episodio più coraggioso, assai vicino a certi tratti essenziali degli EST. Raknes innesca un effetto elettronico che fa sembrare il contrabbasso una chitarra con sustain – mi ha ricordato Terje Rypdal e le sue siderali dilatazioni sonore. Gustavsen e Raknes si scambiano i ruoli, in un certo qual modo, per cui il piano si concentra sulle note più gravi della tastiera vicariando la momentanea assenza del contrabbasso. Con questo brano il trio si discosta dalla linea fin qui seguita, innescando un tocco di maggior contemporaneità che non guasta affatto, se non altro per il tentativo di mescolare più fantasiosamente il mazzo di carte a disposizione. Fløytelåt / The Flute (melodia per flauto) è un’elaborazione di un brano del musicista Geirr Tveitt, uno tra i più importanti compositori e pianisti norvegesi. Se l’originale si presta ad un andamento più tradizionale, Gustavsen lo trasforma confezionandogli un abito più spiritualizzato, offrendoci una sorta di raggiante indolenza e di sentimento nostalgico, con tanto di effetti elettronici sullo sfondo ad evocare un fischiettio lontano. Anche Var Sterk, Min Sjel (era forte la mia anima) proviene dal repertorio colto della musica norvegese, questa volta con la paternità di Egil Hovland, altro nume tutelare della cultura musicale nazionale. Anche questa volta Gustavsen resta in linea, incamminandosi col suo trio in una diradata passeggiata pastorale che chiude inaspettatamente con una cadenza sospesa al V° di dominante.

L’incedere crepuscolare di questo disco mira al raccoglimento serotino, alla riflessione malinconica dell’esistenza. Il tutto si sorregge sulle melodie ascetiche costruite con matrici classiche, tradizionali e intrusioni jazzate. Occorre una certa disposizione a perdersi tra le ombre, per ascoltare questo disco, perché si tratta di un insieme di lampi senza tuoni, melodie prive di geometrie convulse e condotte con l’incedere tranquillo di chi conosce bene l’arte della riflessione. 

Tracklist:
01. The Circle
02. Findings / Visa från Rättvik
03. Opening
04. The Longing
05. Shepherd Song
06. Helensburgh Tango
07. Re-Opening
08. Findings II
09. Stream
10. Ritual
11. Fløytelåt / The Flute
12. Vær sterk, min sjel