R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Il jazz scandinavo sta attraversando un momento evolutivo che passa, oggi, anche tra le architetture originali del pianista Kjetil Mulelid, trentunenne musicista norvegese, qui con il batterista Andreas Winther e il contrabbassista Bjorn Marius Hegge in questo ultimo lavoro Who Do You Love the Most. Uscendo dalla facile retorica del carattere “nordico” di questa musica, cioè da tutto quel bagaglio estetico di malinconiche introversioni e aristocratici spleen che ci si possa aspettare, Mulelid non tradisce evidentemente la mancata appartenenza ad una certa impronta meditativa, ormai sigillo abituale di questo jazz. Ma le sue strutture armoniche tendono a rifuggire da semplicismi d’effetto, da certe esasperate rarefazioni sonore che abbiamo spesso avvertito in gruppi organizzati come questo trio. Al contrario, le linee melodiche s’intrecciano a volte evocando linee di blues, altre volte sovrapponendosi con trame complesse che risentono, com’è costume dei musicisti scandinavi, di influenze folk, classicismi, elementi gospel – come in questo caso – e suggestioni pop. Una bella calligrafia stilistica, soprattutto molto matura, e una ritmica che s’adatta come un guanto alla costruzione di Mulelid, sono i suggelli di questa prova molto buona, seppur senza picchi particolarmente intensi. Pervade l’intero album una sensazione di grande equilibrio, con molte ballate lente e riflessive ed una sensibilità narrativa di rilievo. Una certa stabilità emotiva è il termometro che misura la qualità complessiva di questo album che non si avventura mai in territori troppo rischiosi, non amando espressioni di virulenza energetica né per contro senza annaspare in paludosi languori autunnali. Mulelid, insieme al suo trio, è giunto alla terza uscita discografica per Rune Grammofon, ma non dobbiamo dimenticare né la prova solista in Piano del 2021, né le partecipazioni ad un altro gruppo, Wako, discograficamente attivo dal 2015.

I brani che scorrono in questo album sono tutti di Mulelid ad eccezione di Archetypal Man, opera della cantautrice americana Judee Sill, scomparsa nel 1979. Inoltre due titoli, Point of View e For You I’ll Do Anything sono qui riveduti dalla formazione a trio ma provengono entrambi dal disco solo del leader, il già citato Piano.

Ci si immette nelle prime note dell’album con Paul, un brano dalla forte connotazione classica nella sua introduzione che sembra portare con sé le tracce di ciò che già ci si aspetta, con contrabbasso e batteria che oscillano tra le pause della melodia pianistica cercando le loro più naturali collocazioni. I cambi tonali sono numerosi, la musica si frammenta in diverse piccole scale. Non so se sia voluto o no, ma vuoi per la suggestione del titolo, vuoi per una certa assonanza globale, mi è tornata alla memoria la procedura improvvisativa di Paul Bley costruita con gruppi ristretti di note, assemblaggi di colore che s’intrecciano dando l’impressione superficiale di un’assenza direzionale, un vagabondaggio attraverso la tastiera di chi sia immerso nelle proprie riflessioni esistenziali. Endless ha un andamento più ritmico ed orecchiabile, con una melodia introduttiva dal forte carattere new age che poi viene approfondita e sviluppata in senso circolare. Dalla metà in poi il valore improvvisativo del pianista lo si avverte tutto, dal modo circostanziato con cui procede a cerchi concentrici attorno alla melodia portante e dalle tensioni della linea musicale che vorrebbe staccarsi dalla sua matrice originale ma che da questa viene invariabilmente attratta, subendone l’impronta gravitazionale. The Road ricorda inizialmente certe dimensioni un po’ country all’americana, con un contrabbasso che segue un giro armonico ricorrente e col piano impegnato nel reiterare brevi e ficcanti frasi musicali. Dalla metà in poi la tendenza si fa più jazzata e Mulelid cerca di liberarsi dallo schema d’impianto, allontanandosi dall’orbita dell’impostazione iniziale seguendo i suoi schemi che in questo frangente risentono chiaramente della tradizione be-bop. Sul finire si riprende da dove si era cominciato, anche se con una maggior tendenza dinamica, almeno fino al progressivo dissolversi dei suoni. Remembering è l’ombra, la torsione verso sé stessi, la riflessione malinconica in linea con l’assetto interpretativo scandinavo del jazz attuale. Questo brano, al di là della soffice e delicata melodia che lo costituisce, riassume i caratteri distintivi della “seconda” ondata del jazz nordico, rispetto ai padri degli anni ’70-’80. L’esperienza di musicisti come Garbarek, Bobo Stenson, Terje Rypdal, Ketil Bjornstad, Edward Vesala – qui mescolati arbitrariamente nelle loro origini territoriali ma avendo in comune un analogo senso espressivo – ha decisamente condizionato il clima creativo dei vari E.S.T, Martin Tingvall, Tord Gustafsen, Sinikka Langeland, Lars Danielsson ecc… Anche Kjetil Mulelid Trio non fa eccezione e Remembering lo rivela nel modo più esplicito possibile, praticando un vero e proprio “culto melodico” con l’intenzione di rendere il filo musicale il più nitido e pulito possibile. Point of View, come detto in precedenza, è rivisitato dal lavoro pianistico in solitudine dello stesso Mulelid. Evidentemente qui l’assetto ritmico è preponderante e condiziona lo svolgimento del brano, in origine più focalizzato su un tempo interiorizzato, come spesso accade nei lavori di solo piano, piuttosto che in un ritmo esplicitato dal sovrapporsi del contrabbasso e dall’appoggiarsi dei piatti della batteria come avviene in questo specifico caso. Ballata malinconica con un bell’assolo nella porzione intermedia ed una coda bachiana in chiusura.

The Archetypal Man fu composto da Judee Sill e pubblicato in origine nell’album Judee Sill del 1971. Due parole doverose per questa autrice, sfortunatissima e dimenticata, che fu la prima artista ad essere messa sottocontratto dall’allora nascente etichetta Asylum di David Geffen. Di lei furono pubblicati due LP, di cui il primo già citato del ’71 e un secondo, Heart Food, del ’73. Judee andò incontro ad una serie impressionante di lutti, amori andati alla malora, riformatori adolescenziali ed infine la tossicodipendenza che le sradicò la vita poco più che trentenne. Trovate facilmente in streaming i suoi dischi e la sua voce angelica e purissima, impigliata tra gli intervalli sincopati del finger-picking chitarristico. Nello specifico questo brano qui riproposto era una ballata country-folk ma con un curioso inserto cantato sullo stile dell’improvvisazione barocca, molto vicina a Bach. Mulelid ne fa risaltare l’aspetto più cantabile trasformandolo in un brano gospel. L’assolo di contrabbasso di Hegge segue in parte il canone d’impronta bachiana mentre il pianista armonizza in termini più autenticamente jazzistici nel mezzo della traccia, per riallacciarsi con l’intenzione originaria verso il finale. Anche For You I’ll do Anything è una versione dello stesso brano comparso in Piano, ma la melodia conosciuta viene ripresa solo dopo un iniziale assolo di contrabbasso. Hegge è peraltro molto attento alla dimensione lineare del suo assolo, non cerca esibizionismi gratuiti, preoccupato di entrare – e far entrare – nel giusto climax della composizione, senza stacchi né sbalzi improvvisi. In questo contesto di revisione in trio non viene però accentata più di tanto la componente ritmica, preferendo lasciare intervalli e spazi larghi tra il piano e il resto del gruppo. Bello e cristallino l’assolo di Mulelid, tecnicamente ben condotto, senza strafare né aggiungere troppe note, garantendo al brano un mood riflessivo, con tanto di brushing finale e prolungato del batterista. Imagine Your Front Door è il brano più moderno narrato dal trio, quello dove si avverte maggior distacco dalla corrente impronta usuale di questa musica. Sembra un’improvvisazione totale, gestita però col solito tatto, dove appare da un lato una fioritura percussiva eterogenea e dall’altro una melodia priva di una guida precisa. I musicisti creano nuovi spazi d’azione, impostando una prospettiva divergente che dura ahimè troppo poco – un minuto e mezzo – per poter capire se questo sia stato solo un episodio oppure un’avvisaglia di una futura direzione musicale. Interessante, da rivalutarne l’intenzione, magari con l’dea di riproporre il tutto con un timing più lungo a disposizione almeno nei concerti live… Gospel si annuncia per quello che vuol essere, un canto religioso con un innodica struttura iniziale, a cui segue l’assolo di piano di Mulelid che s’arrischia “out of tune”, a trasformare il brano in una vera e propria jazz ballad ben scandita dal lavoro attento di Winther alle percussioni. Morning Song  è una canzone senza testo, molto cantabile, una di quelle melodie che rimangono in mente e che ricompaiono inconsciamente alle labbra, a volte, quando meno ce l’aspettiamo. Tempi ben scanditi, quasi solenni, una chiusura lapidaria completamente in linea con quello che ci aspetteremmo dal jazz scandinavo.

Ora, per tirar le somme di questo lavoro, non farei caso agli esagerati peana che ho letto a destra e a manca. Cercherei, per quanto mi riguarda, di considerare l’album del Mulelid Trio come un’opera ben bilanciata, l’epitome di un jazz attuale che ha i suoi estimatori così come i suoi detrattori, che vedono, questi ultimi, la musica della Rune e di ECM come l’apice di un atteggiamento iper-cool che avrebbe poco a che fare con le origini più terrene ed urbane del jazz. Credo che allontanarsi dai suddetti schieramenti sia l’ideale per poter valutare opere come queste, ben suonate, ispirate, coese al dettaglio anche se rette spesso da melodie insidiose, vagamente neo-romantiche.

Tracklist:
01. Paul
02. Endless
03. The Road
04. Remembering
05. Point of View
06. The Archetypal Man
07. For You I’ll Do Anything
08. Imagine Your Front Door
09. Gospel
10. Morning Song