R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Con Marco Pacassoni possiamo dire che il processo di ristrutturazione dei “quartieri periferici” del jazz si stia avviando verso un deciso miglioramento estetico. L’Europa non è più, da tempo, la sorella minore del jazz contemporaneo. Pacassoni può quindi scegliersi addirittura degli illustri compagni di avventura americani come il contrabbassista John Patitucci e il batterista Antonio Sanchez, progettare un disco come questo Life e registrarlo a New York facendolo conoscere al mondo intero. Solo qualche anno fa queste imprese erano rare, piuttosto si assisteva al processo inverso, per cui molti jazzisti americani venivano invitati in Italia, si organizzavano con gruppi estemporanei anche di ottimi musicisti nostrani per fare concerti e spesso incidere dischi. Si viveva una sorta di benevolo colonialismo culturale, giustificato forse dal gap tra due diversi modi d’intendere la musica, sia per storia che per tradizione. Il quarantunenne vibrafonista Pacassoni sta ora vivendo indubbiamente un’avventura affascinante che l’ha portato dalle Marche, dopo il diploma di Conservatorio conseguito a Pesaro, fino al Berklee di Boston e poi all’insegnamento musicale sia negli stessi USA che qui in Italia. Noi di Off Topic ci eravamo già occupati di questo artista e potete quindi trovare la recensione del suo precedente lavoro Hands & Mallets (2021) – presentato insieme ad Enzo Bocciero – proprio qui. Attraverso una numerosa serie di esperienze discografiche, iniziate nell’anno 2000 con Vibrafonia, poi passate attraverso una girandola di collaborazioni e progetti fino al Matteo Pacassoni Quartet & Group – dal 2011 al 2018 – il vibrafonista marchigiano s’impegna ora in una vera e propria esperienza quintessenziale, un lavoro come Life ben rifinito dai suoi collaboratori americani che seguono le strade melodiche impostate da Pacassoni senza mai costringerlo all’angolo, anzi, dimostrando una cura ed un rispetto per la sua musica quasi al di là delle normali aspettative.

Il trio si muove con leggerezza, lavorando con una strategia sottrattiva, asciugando la musica d’ogni ridondanza e scommettendo sul fascino del non-detto, piuttosto che insistere sull’esplicito. Tra questi disegni, colorati con poche ed eleganti cromie, il duo ritmico Patitucci-Sanchez rinuncia a qualsiasi eroico furore esecutivo optando per un’attenta fase meditativa, quasi tracciata con il gusto coreografico di poter seguire il vibrafono senza soverchiarlo, creandogli intorno una cornice ideale che gli consenta il risalto che merita. Solo nelle ultime due improvvisazioni, presenti nella scaletta dei brani del disco, i tre musicisti si lasciano andare un po’ di più ma se si pensa di ascoltare scale forsennate di vibrafono, rullate muscolari di batteria o nevrotiche cavate di contrabbasso si rimarrà certo delusi. L’album è costruito all’insegna dell’equilibrio e della “semplicità”, qualora s’intenda quest’ultimo termine come un assetto qualitativo in cui non si debba faticare ad inseguire gli sviluppi di ciascuno strumento, nel rispetto prossemico che ognuno porta per l’altro.
Time Vibes è il brano in apertura. Non ci sono solo le vibrazioni dello strumento di Pacassoni ma anche quelle del basso elettrico di Patitucci che per lunghi momenti, soprattutto quando il leader è in pausa, resta su alcune note di bordone, ancorando alla fonda il breve assolo di Sanchez sulla batteria. Il vibrafono introduce una prima frase, contrappuntata dal basso e dal moderato atteggiamento percussivo del batterista, a cui ne seguiranno diverse altre. Alcune di queste vengono reiterate e legate tra loro con un andamento circolare, mentre Sanchez frammenta i ritmi nel suo assolo fino a quando scatta il momento dell’improvvisazione di Pacassoni. Quando si torna alle frasi iniziali, prima di concludere la traccia, il vibrafono si spegne progressivamente in lontananza e la ritmica lo segue, rallentando i tempi e diminuendo le dinamiche sonore. Life, la title-track, si costruisce su una semplice linea melodica di marimba prima di cedere il passo alla musicalità più piena del vibrafono. In realtà si tratta di uno scambio continuo tra i due strumenti ma è la marimba che inizialmente gestisce la parte legata all’improvvisazione di Pacassoni, ed è solo nella seconda sezione del brano che questa estemporaneità esecutiva viene deviata verso il vibrafono. Ci godiamo anche un tranquillo assolo al basso elettrico di Patitucci. Marimbass è un dialogo organizzato tra la marimba ed il basso, che in quest’occasione è quello acustico. Ed è appunto il contrabbasso ad innescare un semplice giro di note sulle quali la marimba attende rimanendo in surplace. La melodia innescata da Pacassoni ha un certo sapore latino alla quale risponde Patitucci che lavora sulle timbriche più alte vicine al ponticello. Il brano possiede una propria svagata leggerezza che si mantiene anche durante l’aerea improvvisazione della marimba. Si trova spazio anche per un assolo di Sanchez mentre gli altri due strumenti si sospendono in un semplice riff altalenante. Si chiude con un cinguettio di marimba e un morbido passaggio finale di note al basso. Valse à Trois si aggiudica la palma della piacevolezza ed è, in teoria, un valzer ma in realtà si tratta di una combinazione di vari tempi ritmici, continuamente interrotti e ripresi da Sanchez, dentro cui s’allarga un lungo, discorsivo assolo di contrabbasso. Pacassoni improvvisa con assoluta convinzione in un brano che è il più jazzy tra tutti, forse il meno “ordinato” ma affidato ad una musa capricciosa che lo rende intrigante ed anticonvenzionale.

Un Lento Bolero vede uno splendido contrabbasso che prende il potere direttivo e trainante del trio, in un brano colmo di silenzi incuneati tra gli strumenti, una batteria quasi minimale ed una marimba che respira – e fa respirare – tra una nota e l’altra. Uno strano brano, rarefatto, un po’ trattenuto, con un traino melodico non indimenticabile ma che sembra funzionare come un distillato di suoni ottenuti tra uno spazio e l’altro. Italian Creativity è uno spumeggiante pezzo di bravura di Pacassoni che circa a metà percorso si ferma insistendo in un ripetitivo riff che dà occasione al batterista di fantasticare con le sue percussioni nel modo per lui più consueto in questo album, con estrema discrezione, quasi in punta di piedi. Notevole l’improvvisazione di Pacassoni, a mio parere colto in uno dei suoi momenti migliori. Anita è una melodia addolcita dal contrappunto dell’archetto di Patitucci che senza eccessivi languori partecipa all’introduzione della linea di vibrafono in un pezzo lento e un po’ sognante, velato da qualche accenno malinconico, abbondantemente stemperato poi dall’assolo improvvisato di Pacassoni. Anche il contrabbasso procede lentamente con grazia premurosa nel contribuire alla finalizzazione del brano, centellinando le proprie note con certosina eleganza, soprattutto durante l’assolo un po’ alla Charlie Haden. Train Trip inizia con una piccola intro di marimba dall’anima velatamente latina ed il contrabbasso che entra subito in dialogo, scambiandosi poi spesso i ruoli in un ménage a trois con il vibrafono che s’alterna alla stessa marimba. Piacevolmente melodico e soddisfacente l’assolo di Patitucci. Da rimarcare la disponibilità di Sanchez che s’impegna in un ordito percussivo a distendersi progressivamente tra i momenti discorsivi degli altri due partner e che nel finale emerge sempre alla sua maniera, in modalità “sottovoce”, si potrebbe dire. Gli ultimi due pezzi dell’album sono due totali improvvisazioni, Conversation #1 e Conversation #2. Come accennato all’inizio, i tre musicisti, com’è lecito aspettarsi che sia, si lasciano andare un po’ di più ma, per dirla come Solone, non oltrepassano mai il limite. Anche se in questi casi si avverte una mancanza di direzione, legata al fatto che si suona d’emblée, senza programmi predeterminati, non ci sono tentazioni rumoriste né dissonanti arrovelli sonori. Addirittura, in #2, sembra che il contrabbasso disegni una sorta di bozzolo protettivo attorno alla band che s’incammina in un percorso introverso e meditativo, quasi un retrarsi in sé stessa in una specie di riflessivo consuntivo finale.
Diciamo tranquillamente che in questo disco, diversamente da molti altri, non ci sono momenti prescindibili né debordanti e tutto appare presentato con rigore, senza tentativi di far accademia. Gli arrangiamenti spingono sui colorismi piuttosto che sull’esibizionismo tecnico e l’assetto formale, equilibrato in tutte le sue parti, appare come una solida intelaiatura di base.
Tracklist:
01. Time Vibes
02. Life
03. Marimbass
04. Valse à Trois
05. Lento Bolero
06. Italian Creativity
07. Anita
08. Train Trip
09. Conversation #1
10. Conversation #2
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