R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Una storia di reciproci omaggi, questo ultimo lavoro di Louis Sclavis. L’ispirazione principale viene dallo scrittore e viaggiatore svizzero Nicolas Bouvier che nel 1953 si mosse dalla svizzera fino in Giappone con una Fiat Topolino – solo chi ha circa la mia età e quella di Sclavis può rammentarsi di quest’auto… Il suo viaggio si concretizzò in un libro, L’Usage du Monde, tradotto in italiano col titolo La Polvere del Mondo pubblicato in Italia nel 1963. A questo libro s’ispirò il fotografo Frederic Lecloux, partito nel 2004 ripercorrendo le orme di Bouviere raccogliendo delle istantanee di viaggio che pubblicò con il titolo L’Usure du Monde. A questo punto entra in scena Sclavis che dichiara di essersi ispirato alle immagini di Lecloux, viaggiando insieme a lui solo con l’immaginazione, appuntando in musica ciò che la sua mente di artista visionario gli suggeriva. E di visioni immaginifiche Sclavis se ne intende sicuro, visto che nel 1977 egli partecipò alla creazione dell’ARFI, Associazione per la Ricerca di un Folklore Immaginario – tra cui uno dei gruppi appartenenti era La Marmite Infernale di cui troverete una recensione qui. Che musica suona, Louis Sclavis? Bella domanda. Come molti tra i migliori musicisti contemporanei, diventa difficile tratteggiare un’area precisa d’azione per questo sessantottenne clarinettista francese. Con una trentina di produzioni discografiche alle spalle, composizioni di colonne sonore, cerebrali giochi di montaggio tra jazz, camerismo e transizioni folk, Sclavis presenta questo ultimo lavoro, Les Cadences du Monde, insieme a tre musicisti che accompagnano il suo clarinetto, Annabelle Luis – proveniente dall’area classica barocca – e Bruno Ducret – figlio d’arte, suo padre è il chitarrista Marc Ducret – ai violoncelli, con Keyvan Cheminary alle percussioni. I brani del disco scorrono tra pennellate cinematografiche, imprinting dl primo novecento e un jazz più che altro occasionale. Le suggestioni provenienti da musiche tradizionali ci sono, eccome, ma una focalizzazione geografica diventa impossibile nonostante le percussioni prodotte dagli strumenti tipicamente medio-orientali come il Daf e lo Zarb, che cercano di ancorare queste Cadences all’Est del mondo.

Si ascoltano molti momenti legati a doppio filo tra Occidente ed Oriente ma mi sembra che il primo polo sia quello predominante, nel senso di un’affinità intellettuale con la musica “classica” da camera piuttosto che con la tradizione popolare di qualsivoglia parte del mondo. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che la musica che ascoltiamo in questo album non è descrittiva, né legata a particolari ricordi personali bensì puramente immaginaria. Essa è comunque in grado di esprimere anche una certa oscura sensualità, soprattutto attraverso le molte timbriche gravi che ascoltiamo grazie anche all’apporto dei due violoncelli.
Une Longe Route Blanche inizia con quello che sarà un po’ il canovaccio dell’intero album, cioè l’intreccio sinuoso tra il clarino e i violoncelli, scandito dalla precisione percussiva piena di colori scuri da parte di Cheminary. La melodia serpentina ha un andamento arabeggiante con le ampie volute del clarino basso che scorre con scioltezza tra i pizzicati degli archi. Le Chaos du Monde ha un andamento misterioso, lo strumento a fiato è suonato meravigliosamente e possiede un suono morbido che fluisce con levigato incedere tra le scale prese in velocità e il pizzicato d’un violoncello. Poi irrompono le percussioni con autorevolezza, rendendo la musica quasi frenetica, con uno, tra la coppia di violoncelli, suonato a mo’ di contrabbasso. Lo schiumare ritmico perdura per il resto del brano, rendendo quasi percepibile l’impressione di uno scorrimento veloce di immagini che si sovrappongano e s’incrocino l’una sull’altra. L’obsession des Byzantins è tra i brani che preferisco, con quel cominciamento tra i due violoncelli che cantano come fossero voci umane. Alla comparsa del clarino uno tra gli archi continua in un pizzicato, mentre l’altro accompagna le escursioni del fiato verso i timbri più bassi. La traccia è altamente suggestiva, colma di morbidezze quasi carnali. In Conte d’un jour Sclavis lancia il suo clarino in un’escursione tra scale insolite che mi hanno ricordato certe intenzioni alla Eric Dolphy. Poi, complice la percussione a tamburello del Daf e i suoni reiterati degli archi, si entra in un’atmosfera medioevaleggiante, in quella che potrebbe assomigliare inizialmente ad una danza cortigiana, per poi diventare più tribale e disconnessa sul finale. Les Deux Ecritures è il brano con più dissonanze di tutta la selezione di questo disco. Qui, come già accennato in precedenza, i riferimenti “colti” alla musica contemporanea, da Anton Webern allo Stravinski dell’Histoire du Soldat, appaiono come in una foto solarizzata, in modo informale seppure ancora decifrabile.

Ce Logis Depouillè è tutt’un altro andare. Un vero e proprio riff del primo violoncello costruisce la base su cui il secondo prova un accenno melodico, prima dell’ingresso del clarino che si raddoppia, in sincrono, con quest’ultimo arco. Le percussioni orientalizzano il brano che tuttavia non si fa imbrigliare facilmente in alcun cliché. Anzi, nella seconda parte, sembra che la direzione si faccia marcatamente più jazz, salvo rientrare verso il finale tra le dune di paesaggi desertici con il suo movimento melodico allusivamente ondeggiante. Montèe aux etoiles si muove con passo leggero e immateriale ma colmo di tristezza. Sembra una confessione a cuore aperto e funzionerebbe molto bene anche come colonna sonora di un film quando compaiono i titoli di coda e il pubblico resta fermo a guardarli scorrere, turbato o commosso da ciò che ha visto. La Fin des Phrases ha un violoncello che si esprime in assolo, ricordando ad un certo punto, per una breve sequenza di note, il Notturno Opera 9 Larghetto di Chopin. Dopo un primo approccio un po’ mesto il brano si rincuora contando sulle percussioni e regalando l’opportunità a Sclavis di lanciarsi in un lungo assolo improvvisato, questa volta di squisita matrice jazzistica, mente un violoncello segue una veloce linea di basso in pizzicato. A l’Est des Sources è inizialmente un colloquio a due clarino – arco a cui s’accoda in un bellissimo controcanto anche il secondo dei violoncelli. A circa metà brano questi due strumenti proseguono entrambi in pizzicato mentre il clarino intona una linea melodica settecentesca alla Handel. Les Saisons du Delta riprende certe atmosfere cariche di misteriosa attesa che ogni tanto incrociano i brani di Sclavis. Compaiono effetti sonori un po’ rumoristi tra l’incedere delle percussioni e quando la traccia diventa più lineare, il clarino torna a volare alto mentre i tamburi interloquiscono con i violoncelli. Red Point chiude con un lungo dialogo tra i due archi. Il clarino basso irrompe solo in concomitanza della comparsa delle percussioni. Un assolo ai tamburi nel finale spezza l’abitudine all’usuale alternanza degli strumenti e conclude l’album con questa sua perentoria auto affermazione.
Concludendo, Sclavis riesce sempre a dare corpo alle sue immagini interiori con delle forme che a tratti sono idealizzate verso componenti di matrice classicheggiante e in altre occasioni si reificano con suoni di terra e tradizioni più popolari. Il clarinettista francese possiede una straordinaria tecnica esecutiva che si mantiene all’interno di un sobrio profilo stilistico, con un suono molto limpido e scorrevole. Il suo viaggio erratico attraverso le fotografie ispiratrici di Lecloux si traduce in una serie di quadri interiori, un metatesto sonoro che ci spinge all’interno delle sue immaginazioni, accendendo spesso anche le nostre.
Tracklist:
01. Une longue route blanche
02. Les chaos du monde
03. L’obsession des byzantins
04. Conte d’un jour
05. Les deux écritures
06. Ce Logis Dépouillé
07. Montée aux étoiles
08. La fin des phrases
09. A l’est des sources
10. Les saisons du delta
11. Red point
Photo Credit:
© [1] Stéphanie Griguer, [2] Damien Jacobs
Rispondi