R E C E N S I O N E


Recensione di Mario Grella

Ricordo quel gelido pomeriggio dell’inverno del 1979 quando Charlie Mingus morì. Collaboravo allora in una di quelle che un tempo si chiamavano radio libere, Radio Kabouter di Novara per la precisione. Alla consolle c’era il mio amico Fabio che ne annunciò la morte. Fino ad allora non avevo mai sentito il nome di Mingus, ma rimasi molto colpito dal racconto della sua vita, tra poesia e psicofarmaci, che ne fece Fabio. Da allora ogni volta che mi imbatto nel nome di Mingus, alzo le antenne per recepire qualcosa di lui che mi fosse sfuggito. Anche in occasione dell’uscita di questo magnifico lavoro a quattro mani, Charlie’s Blue Skylight ad opera di Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins, le mie antenne hanno percepito un magnetismo molto particolare. Il disco, prodotto dalla lungimirante etichetta pugliese Dodicilune, è un piccolo capolavoro, anzi un “capolavoro” e basta poiché, come giustamente notava il premio nobel Peter Handke, non esistono capolavori “piccoli”. Tutti i brani sono di Mingus e, credo, non potesse essere diversamente per due grandi musicisti come Ottaviano e Hawkins che, per omaggiare Charlie Mingus, hanno preferito l’interpretazione di sue partiture anziché un tributo fatto con composizioni originali. Rispetto per Mingus? Modestia? Credo solo presa di coscienza. Andare oltre Mingus sarebbe stato rischioso e Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins lo avevano capito e così hanno preferito una strada diversa, quella di mantenere in essere le composizioni di Mingus e cercare di rileggerle seguendo le proprie inclinazioni musicali, esperite nelle loro lunghe e prestigiose carriere.

Si comincia con Canon e con l’intenso sound del sax soprano solo di Roberto Ottaviano, composizione di una olimpica pacatezza e profondità senza fine. Segue Hobo Ho, dedicata alla figura leggendaria del vagabondo americano di fine Ottocento, ma che tanto spazio ebbe nella musica americana blues, country, folk e figura assai cara a Mingus che vagabondo nell’anima lo è sempre stato. Il dialogo e la contrapposizione tra il piano di Alexander Hawkins e il sax di Roberto Ottaviano, si fanno stringenti. Il ritmo imposto dal piano sembra ricordare l’incalzare dei treni che attraversavano le pianure trasportando gli “Hobo”, spesso viaggiatori clandestini, che su quei treni viaggiavano. Remember Rockfeller at Attica è un brano che si nutre della storia recente degli Stati Uniti e fa riferimento al governatore di Attica che, a causa della rivolta dei detenuti del carcere della città avvenuta nel 1971 dopo l’uccisione di George Jackson, compì una vera e propria strage e trentun prigionieri persero la vita. Inutile cercare del patetismo o della commiserazione nel brano di Mingus che è in realtà dinamico e descrittivo di tutta quella energia repressa, più che emotivo ed evocativo. Surreale ed ironica ecco poi Oh Lord, Don’t Let Them Drop, That Atomic Bomb On Me, una composizione quasi atonale e puntillistica che sembra conciliare il jazz con echi di musica colta, segue poi Dizzy Mood, dove il sax di Ottaviano sostituisce in maniera sorprendentemente efficace il contrabbasso. Magnifico anche lo strano incubo della canzone Smooch A.K.A. Weird Nightmare, nella versione Ottaviano-Hawkins.

Il disco intenso e fecondo di suggestioni corre via veloce e, anche nei pezzi più tortuosi come Pithecanthropus Erectus, (del 1956, anticipatore del Free Jazz), l’ascolto è piacevole, grazie agli arrangiamenti armoniosi anche nella disarmonia, e pur con un organico di soli due strumenti che restituisce però in pieno la temperie sperimentale del pezzo originale. Self Portrait in Three Colors, “Sono Charles Mingus. Mezzo nero, mezzo giallo… ma non proprio giallo e nemmeno bianco…” è ciò che di sé scriveva Mingus parlando di questo brano, fatto di “improvvisazione programmata”, in una melodia composta di poche battute che si ripete per tre volte e che si arricchisce alla seconda e alla terza ripetizione. È mirabile il fatto che l’intero sviluppo del brano venga qui sostenuto da soli due strumenti che riescono a restituire tutta la ricchezza del pezzo. La stesse ricchezza strumentale, quasi polifonica, di Haitian Fight Song riesce ad essere racchiusa nelle strepitose vibrazioni di sax e pianoforte, e non era certo un risultato scontato per questo brano che vuole evocare addirittura una rivolta di schiavi, quelli haitiani appunto, sul finire del XVII secolo e che Mingus propone nel 1957, in un periodo di forti tensioni razziali. Si chiude in bellezza, grande bellezza con Us Is Two, e i due in questa occasione sono proprio Roberto Ottaviano e Alexander Hawkins che hanno saputo, oltre che interpretare, anche re-inventare magistralmente i brani di Mingus senza che dello spirito ribollente di Mingus andasse perso nulla.

Tracklist:
01. Canon
02. Hobo Ho
03. Remember Rockfeller At Attica
04. Oh Lord, Don’t Let Them Drop That Atomic Bomb On Me
05. Dizzy Moods
06. Smooch A.K.A Weird Nightmare
07. Pithecanthropus Erectus
08. Free Cell, Block F Tis Nazi U.S.A.
09. Self Portrait In Three Colors
10. Haitian Fight Song
11. Us Is Two

Photo © Luca D’Agostino