R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Il percorso musicale del chitarrista Antonio Trinchera dal 2016 a questa parte – anno della pubblicazione di Next Move con A.MA Records, il suo vero primo lavoro di lungo respiro – non ha subito, nel tempo, nessuna scossa particolarmente rivoluzionaria. Piuttosto ci sono stati degli aggiustamenti, dei rimaneggiamenti, una correzione di qualche grado sulla rotta di navigazione che da sempre procede in un ambivalente territorio di confine tra l’elettronica, l’ambient, il nu-jazz ed il jazz “propriamente detto”, anche se quest’ultima definizione sarebbe, ovviamente, tutta da discutere. Nel 2021 Trinchera, insieme al polistrumentista Dario Antonelli, pubblica sotto il nome di BitMapCrew l’EP Bits of Impressions, orientando i suoi parametri espressivi verso un piglio più ritmico ed elettronico, rispetto agli inizi. Tuttavia, anche in questo ultimo album Fauves, al di là del titolo ferino, il senso della musica resta sempre incentrato attorno alla mescolanza tra generi diversi, una strada percorsa in origine da Nicola Conte, che considero ancora e sempre uno dei numi tutelari di questo tipo di ibridazione sonora, almeno per quel che riguarda il territorio nazionale. Le note autobiografiche di Trinchera accennano ad una provenienza da studi classici per ciò che riguarda il suo strumento ma l’impronta attuale è decisamente contemporanea e non si legge nel suo stile qualcosa che rimandi alla tradizione be-bop. Piuttosto sembra che siano preferiti suoni prolungati, mescolati a fraseggi più classici, d’impostazione jazz-rock, comunque molto espressivi e contenuti, senza togliere spazio agli altri strumentisti. La sua chitarra potrebbe stare vicino al modello Pat Metheny ma certe sonorità più spaziate mi hanno ricordato le dilatazioni sonore di Terje Rypdal. La musica che ne viene è una sorta di funk in guanto di velluto, molto piacevole all’ascolto, un diorama che dimostra suggestioni luminose ed ombre inaspettate, offrendo alla vista una panoramica di particolari di cui ci si accorge solo riascoltando più volte l’intero album. Trinchera suona accompagnato da Dony Valentino alle tastiere ed al violino elettrico con Camillo Pace al basso elettrico e al contrabbasso – questi ultimi collaboratori entrambi già presenti nel precedente Next Move – mentre Alessio Santoro e Leo Consoli si alternano alla batteria.

1976 è il brano iniziale, dove piano e sonorità elettronica impostano una base su due accordi, una triade minore seguita da una maggiore a distanza di un semitono. Entrano poi gli altri strumenti, con la ritmica che pensa al groove e la comparsa della chitarra che entra con un certo nitore, fraseggiando tra baluginii elettronici senza dilungarsi più dello stretto necessario. Intermezzo che scorre tra percussioni, tastiere e la duplice ripetizione degli accordi che abbiamo ascoltato all’inizio. Trinchera si presenta quindi cucinando un piatto veloce e ben preparato, una sorta di stuzzicante antipasto senza eccessive pretenziosità. Bug Night è un classico nu-jazz costruito su ritmi da deejay, frase ripetuta ad libitum da parte del piano elettrico e beat che sale vorticosamente. Ma è dalla metà in poi che il brano diventa interessante, sia per il fluido assolo di chitarra sia per i continui stacchi ritmici, con piano ed elettronica a creare un effetto elastico-tensivo. La piacevolezza scorre con disinvoltura, in modo semplice e lineare. Sure Like This ha una lunga introduzione con una base che anche in questo caso ondeggia continuamente su una coppia di accordi che tendono a ripetersi. La chitarra di Trinchera entra con le sue note prolungate a cercarsi degli spazi nell’accompagnamento, organizzato in una ritmica uniforme. Dopo un breve assolo di piano elettrico la musica si continua mantenendosi leggera ma un po’ evanescente. Fauves, che dà il titolo anche all’album, è un termine che fa direttamente riferimento ad un movimento pittorico essenzialmente francese del primo ‘900. La traduzione italiana suona più o meno come “belve, creature selvagge” e si riferisce ai toni marcatamenti espressionistici nell’uso del colore usato da questi artisti tra i quali anche Matisse e Andrè Derain. Il dipinto del 1906 ‘Donna in Camicia’ dello stesso Derain, attualmente conservato allo Statens Museum di Copenaghen, è considerato il riferimento iconico per antonomasia del movimento. Quasi a sottolineare l’estrosità del titolo il brano inizia con una serie di incroci ritmico-percussivi dal lontano sapore tribale che vanno a svaporarsi in una sorta di vento elettronico dentro cui si sente scalpitare la chitarra. Quando essa si libera lo fa correndo negli spazi che si crea con i propri suoni allungati e prolungati, quasi lancinanti. Ma il tappeto ritmico ed elettronico è forse il baricentro della composizione attorno al quale tutto ruota, chitarra compresa. Con It’s Gonna Be Allright cambia il mood delle composizioni e la matrice jazz-rock emerge dal profondo reclamando il suo spazio, lasciandosi maggiormente alle spalle il tono techno-ambient che l’ha pervasa fino a questo momento. La base ritmica diventa linearmente più rock con la chitarra che si abbandona nel suo solismo espressivo tra note che si dilungano orizzontalmente e frammenti di fraseggi più serrati. Mi sembra di sentire anche un accompagnamento di chitarra sovraincisa sullo sfondo. Sul finale l’atmosfera diventa rarefatta e si chiude con qualche accordo di piano, un loop elettronico e qualche nota solitaria di chitarra.

Two for the Light emerge come un fiore in crescita tra un tripudio di piatti di batteria. Oltre alla chitarra, con il suo abituale movimento di note lunghe, si può ascoltare il basso di Pace finalmente in maggior evidenza, anche se in questo album non c’è quasi mai uno strumento in particolare a far la parte del leone. È sempre l’elettronica e la sua effettistica con cui la musica deve fare i conti, anche se forse sarebbe stato opportuno dar maggior risalto a qualche strumento in fase d’assolo, una tantum. Woman’s Dream è una ballad dove finalmente la chitarra di Trinchera riesce a cantare libera e il peso dell’elettronica diventa più leggero. Un jazz-fusion un po’ allungato con ghiaccio, potremmo dire, se non fosse per l’assolo di contrabbasso – finalmente uno strumento acustico – che offre più verve all’intero brano. Peccato venir sfumato sul più bello… Con Three for the Night restiamo in una zona più moderata, anche se ci si è allontanati decisamente dal clima della ballad. È piuttosto un ritorno ai paesaggi del nu-jazz, molto amati da queste parti, con una bella chitarra e una ritmica più pop del solito, molto dance e dai contorni latineggianti. The Tractor and the Child chiuderebbe sulla falsariga dell’ultimo brano se non fosse per la sequenza degli assoli che si presentano uno dopo l’altro. Parte la chitarra che in verità, più che pensare ad un assolo vero e proprio, si occupa di creare un groove avvincente su cui interviene secondariamente il violino elettrico di Valentino che poi replica un altro solo al piano elettrico, secco e coinvolgente, l’ultimo lampo prima della chiusura dell’album.
Come capita spesso nell’ascoltare questi mix di vari generi musicali diversi, ben amalgamati tra loro ed altrettanto ben suonati, non si può prescindere dal piacere rilassante con cui questo album riesce a farsi assorbire sottopelle. Certo, il clima è leggero, solare, ed è altrettanto vero come non sia pretenzioso né tanto meno voglia farsi passare per quello che non è. La componente ritmica ed elettronica mi pare comunque il fulcro principale su cui si muovono tutte le dinamiche di questa musica che conserva, dentro di sé, l’onestà di un giocoso disimpegno. Sarebbe stata apprezzabile anche una maggior presenza dei singoli strumenti che invece, sempre attenti alla visione d’assieme per non sovrapporsi l’un l’altro, rischiano di autolimitarsi più del necessario.
Tracklist:
01. 1976
02. Bug Night
03. Sure Like This
04. Fauves
05. It’s Gonna Be Allright
06. Two for the Light
07. Woman’s Dream
08. Three for the Night
09. The Tractor and the Child
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