R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Raccontare la Storia dell’America latina, o quanto meno una sua sintesi dal punto di vista musicale, presumo sia un’impresa a dir poco ardua. E forse il sassofonista portoricano Miguel Zenon, con questo suo ultimo album Música de las Américas, deve aver nutrito delle intenzioni ambiziose conseguenti alla lettura, nel lungo periodo pandemico, di una serie di saggi storici riguardanti il SudAmerica, come ad esempio quelli dell’uruguaiano Eduardo Galeano o del mitografo Sebastian Rabiou Lamarche. L’idea di Zenon, almeno sulla carta, era quella di riflettere specularmente sul passato e attorno all’attuale presente del continente americano, svincolandolo dalla sua dipendenza psicologica dagli Stati Uniti – l’America non è solo rappresentata dagli U.S.A – e sottolineando le rapacità storiche del mondo occidentale, dalla conquista spagnola, allo schiavismo, allo sfruttamento economico e alle interferenze di stampo politico. Quello che però importa e ciò che ci resta, di concreto tra le mani, è la musica di Zenon & C. la cui interpretazione va letta oltre una superficiale impressione polemista che si potrebbe erroneamente attribuire alla base di questo progetto. In realtà quello che Zenon vuole significare è un’idea di unione e non di separazione, ma nello stesso tempo anche una rivendicazione orgogliosa del concetto di Continente, di un’America, quindi che è un insieme di popoli diversi la cui maggioranza c’entra poco con la Storia a sé degli Stati Uniti. Abbiamo ancora nelle orecchie il bel disco precedente, El Arte del Bolero del 2021 realizzato in coppia con il corpulento pianista venezuelano Louis Perdomo che compare col suo pianismo scoppiettante anche in quest’ultimo album. Sarebbe sbagliato affermare che Zenon, in questo lavoro, si radichi esclusivamente nel latin jazz. La sua musica, scevra di per sé da esegesi politiche, si mostra per quello che appare, un ottimo jazz di matrice sudamericana abbondantemente influenzato dal clima culturale nordamericano. Non so, in definitiva, se le intenzioni originarie di Zenon volessero limitarsi ad un semplice omaggio verso la latinità e la sua potente verve espressiva perché al netto di tutto, quello che ne risulta, è una bollente miscela tra jazz contemporaneo ed elementi tradizionali latini. Esportazione di una matrice non più solo portoricana, quindi, ma che allude ed include elementi geografici e storici differenti, per un verso provenienti dalla cintola caraibica in giù ma con allusioni continue al modello metropolitano nordamericano. Nella realizzazione di questo lavoro Zenon e Perdomo vengono affiancati dal contrabbassista Hans Glawischnig e dal batterista Henry Cole. In più è presente l’ensemble di percussioni portoricano Los Pleneros de la Cresta che irrobustisce ritmicamente l’assetto complessivo della sonorità.

Tainos y Caribes è il brano che apre l’album, con un titolo ripreso da un importante testo del già citato Lamarche che tratta dei popoli precolombiani delle Antille. È il piano di Perdomo che scansiona ritmicamente il livello sonoro e che favorisce l’inserimento degli altri strumentisti del quartetto. Zenon scandisce il tema dall’andamento più newyorkese che latino, seguito dalla splendida improvvisazione di un serratissimo be-bop da parte del pianista. Un brano che ha poco di sudamericano, se non un accenno nella componente ritmica sostenuta dalla batteria. Ritorna il tema iniziale e questa volta è il sax a buttarsi nel vivo dell’improvvisazione. La musica è convulsa, veloce, quasi senza respiro e gli artisti non badano certo a risparmiarsi. Segue un ostinato, ribattutto accompagnamento di contrabbasso attorno ad una singola nota su cui piano e sax si danno appuntamento per riprendersi ancora una volta il tema portante. Un ascolto “a cieco” di questo brano avrebbe poche probabilità di essere attribuito ad un gruppo di origine latina come questo, dato il maquillage sonoro molto urbano che lo riveste. Muta di più il prossimo pezzo, Navegando (Las estrellas nos guian) che allude alle stesse popolazioni centro americane che prendevano il mare sopra semplici canoe, seguendo le indicazioni stellari, più o meno come i Kybernetes dell’antica Grecia. Pur senza strumenti adeguati questi antichi timonieri sapevano orientarsi approfittando dell’esperienza appresa dai marinai più anziani. Anche Zenon e compagni seguono percorsi musicali scanditi da una ritmica tradizionale in cui le percussioni la fanno da padrone. Più calma, più riflessione nei soffi del sax contralto che insegue una melodia maggiormente lineare e meno incombente, senza tuttavia tradire quell’aroma speziato che si potrebbe percepire in uno dei tanti latin-jazz club di una grande città. Con l’aiuto delle voci e del contributo percussivo dei Los Pleneros tutto acquista una dimensione di piacevole intrattenimento danzante, senza dimenticare comunque la farina jazzy con cui questi musicisti sono stati impastati – a questo proposito basta ascoltare il convincente assolo di Perdomo. Opresion y Revolution tocca due argomenti “caldi” nella storia dell’America latina e cioè l’alternarsi di sistemi dittatoriali ed oppressivi controbilanciati da sanguinose istanze rivoluzionarie. Il brano perde parzialmente le caratteristiche della latinità per acquisire un insieme di dissonanze in cui alcuni detriti etnici si mantengono come elementi di contorno percussivo. Sax e piano imperversano alla loro maniera, con Perdomo che spesso insiste in grappoli di accordi reiteranti ed un sax molto libero – quasi free in alcuni punti – che esprime una trascinante torrenzialità. L’assolo di piano verso il finale non fa altro che ribadire la maestria del pianista, che come profilo tecnico e prestanza fisica mi ricorda da vicino un altro grande pianista latino, il cubano Chucho Valdes. Imperios si riferisce direttamente alle grandi civiltà precolombiane, dai più antichi Toltechi fino agli Incas, ai Maya e agli Aztechi. Le loro conoscenze astronomiche e matematiche erano probabilmente superiori a quelle loro contemporanee del mondo occidentale. Ma stranamente questo brano si allontana e di molto dal clima tradizionale per assumere i connotati di una musica decisamente più moderna. Un jazz attuale, ficcante, con molti lunghi assoli di sax e di pianoforte che segue maggiormente una certa urbana frenesia, niente affatto incline a mostrare radici ed inflessioni centro-sud americane.

Venas Abiertas è anche questo un titolo “letterario” in quanto estrapolato da un saggio del citato Eduardo Galeano – Las Vienas Abiertas de America Latina – in cui si descrive l’epopea del colonialismo dall’arrivo degli europei fino agli interventi economico-politici degli USA. Alcune note diradate di piano camminano su un asfalto percussivo prima che il sax di Zenon decida di comparire. L’assetto è drammatico, il suono è shorteriano, l’idea di base mostra una certa discorsività iniziale che va ad incanalarsi progressivamente in un hard-bop dal profilo vagamente misterioso. Verso il finale, l’urlo del sax e i colpi di tom ripetuti sembrerebbero addirittura simulare le grida e la fuga disperata della popolazione sotto attacco di truppe militari colonialiste. Bàmbula è il nome di una danza importata nel sud dagli schiavi africani, ritmo che poi verrà codificato e diffuso in tutta l’America meridionale col nome di habanera. I tamburi realizzati col contributo di Victor Emmanuelli sono il cominciamento di un brano nel complesso assai variegato. Mentre il piano con uno sviluppo di note basse irrobustisce la cospicua componente ritmica, una linea sincrona di sax e della mano destra di Perdomo traccia un percorso in pieno clima be-bop dove i due strumenti citati si alternano in una sarabanda di assoli in cui il jazz moderno si fonde con l’ancestrale impronta percussiva. Un momento d’arresto, che sembra la fine della traccia, è invece solo l’attimo in cui si prende respiro. Il sax pare acquietarsi con qualche nota trasognata ma è solo il preludio verso un finale tirato in corsa e col pieno strumentale. America, El Continente parte più tranquillo, con un arpeggio di pianoforte che serve da piattaforma per l’inserimento del sax di Zenon – sempre più shorteriano – a tracciare le sue enigmatiche melodie sibilline. La novità sta nell’assolo di Glawischnig al contrabbasso, ben inserito melodicamente, che dice la sua senza strafare, cullato dalla ripresa arpeggiata del piano. Nella seconda metà del brano il gruppo accelera i tempi, contrae i ritmi e il sax si fa spigoloso prima del recupero della zona tranquilla del finale, dove tutto si spegne progressivamente. Si chiude il discorso con Antilliano, un brano classicamente di jazz latino, un invito alla danza, naturalmente per chi se la cava con questi passi caratteristici. In questa occasione Zenon sfodera tutto il suo repertorio con grande capacità, muovendosi tra i tipici intervalli latin jazz così come nelle frasi più sincopate e libere del jazz più contemporaneo. Il lungo assolo s’infarcisce di citazioni en passant, si coglie persino qualche nota accennata di Stormy Weather. Finalmente arriva il momento dell’assolo del batterista Cole, coadiuvato e immediatamente seguito dalle congas di Daniel Diaz.

Dopo aver schizzato faville di felicità fisica in quasi dieci minuti di questo gran finale, Zenon trova la quadra – che del resto ha sempre realizzato nella sua carriera – per riassumere il senso odierno del jazz latino. Il contrasto, talora, è netto. Da una parte la festa delle percussioni ma dall’altra l’ombra più inquieta della Storia, rappresentata dalla contemporaneità della musica nordamericana che comunque ha fatto crescere e maturare lo stesso Zenon. E per un musicista che probabilmente ha amato Charlie Parker e Wayne Shorter e che non ha mai reciso il suo cordone ombelicale con la cultura latina, la sintesi è appunto riassunta tutta qui, in questo album così prospettico e tridimensionale.

Tracklist:
01. Tainos y Caribes
02. Navegando (Las Estrellas Nos Guían)
03. Opresión y Revolución
04. Imperios
05. Venas Abiertas
06. Bámbula
07. América, El Continente
08. Antillano


Photo © Adrien Tillmann