R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Quando mi capita, non molto spesso per la verità, di riascoltare qualche vecchio album della Sun Ra Arkestra, non essendo un fan di stretta osservanza mi succede di commuovermi o, in alternativa, di provare una certa irritazione. La commozione ci sta, perchè la Arkestra e la sua guida aliena Sun Ra – almeno fin quando egli fu in vita – potevano suonare musica talmente bella che solo un vegetale – ma forse nemmeno lui – avrebbe potuto restare indifferente a certe ispirate orchestrazioni. Però anche una moderata arrabbiatura è lecita, soprattutto quando un certo livore anarcoide prendeva il sopravvento sull’ironia e sulla disincantata bellezza delle loro performance, obbligando l’ascoltatore ad estenuanti quanto infinite sopportazioni di ance urlanti e cacofonie percussive. Eppure, la Sun Ra Arkestra ha scritto pagine indelebili di musica assolutamente da salvare dall’ingeneroso oblio del Tempo e dal futile scalpiccio delle mode. Del resto, una band che resta sulla scena ininterrottamente dagli anni ’50 ad oggi, con tutti i rimescolamenti che ha subito, tra cui il cambio di leadership, qualche buona qualità deve pur possederla. Delle caratteristiche di Sun Ra e del suo bizzarro aplomb già ne parlammo a riguardo del disco di Tyler Mitchell e Marshall Allen – trovate la recensione qui – due alfieri della Arkestra, in modo particolare il secondo che ancora oggi, alla verde età di 98 anni, dopo la dipartita di Sun Ra, tiene in piedi la baracca guidando con il giusto piglio la numerosa band. Il sax tremolante di Allen, vuoi per contingenze legate all’età o per scelta espressiva che sia, oggi assomiglia sempre più ad Albert Ayler, soprattutto quello di Summertime – dategli un ascolto, a questa versione, perchè la reinterpretazione di questo standard gershwiniano dello sfortunato saxofonista di Cleveland è quanto di più bello e devastante possa capitarvi di ascoltare. La musica che scorre nell’ultimo lavoro della Sun Ra Arkestra, Living Sky, possiede la vertiginosa incertezza del mistero, l’aspetto nascosto del lato invisibile della Luna, con una miriade di suoni – l’Arkestra consiste di venti elementi – che entrano ed escono da ogni dove ma conservando una dimensione piuttosto immune alle tendenze contemporanee del jazz. Questo perchè l’Arkestra è essa stessa la contemporaneità e da sempre ne ha rappresentato il margine più sperimentale ma anche, in un certo senso, l’aspetto più tardo-romantico e nostalgico. Non ci sono rappers, niente ritmi incalzanti, poca elettronica, nessun sentimentalismo pop bensì il puro linguaggio dell’improvvisazione e dell’estemporaneità non fine a sé stessa ma legata alla scrittura, all’arrangiamento, insomma a tutte quelle qualità che oggi possono ad alcuni sembrare obsolete ma che consistono nel quotidiano di chi, come quelli dell’Arkestra, si sono sempre nutriti di pane e jazz. L’organismo mutevole di questa banda ha da sempre comunque uno scopo, cioè quello di elevare gli spiriti oltre il visibile attraverso una moderna tribalità collettiva, alla ricerca di una libertà espressiva che non rinuncia alla tradizione ma sceglie di muoversi liberamente in un ambito creativo, in un continuum che origina da Fletcher Henderson e che va errando lontano, persino entrando nell’orbita di John Zorn e chissà, forse arrivando fino a Saturno, là dove Sun Ra ci sta ancora aspettando.

L’album si presenta all’ascolto con un’incredibile sommossa estetica. Il primo brano è infatti Chopin, una rielaborazione del Preludio in La Maggiore dell’autore polacco che venne inserito originariamente in un bel disco live del 1990, Pleiades, dove lo stesso Sun Ra riarmonizzò al piano il suo Chopin, evidenziando come succedeva a tutti i pianisti del tempo, il proprio debito verso la musica classica. L’Arkestra, in questa occasione, innesca un irresistibile bordone su due accordi di base sostenuto dai fiati che accennano ad uno swing latino, col piano di Farrid Barron ad abbellire il tutto di note probabili e il reparto archi che imbastisce un’incredibile arrangiamento, a metà tra ottocento e il primo qurantennio del secolo a seguire. Allen fischia col suo sax free in mezzo a questo nuovo ordine strutturale ma quello che a prima vista può sembrare una versione scalcagnata e provocatoria di questo brano si dimostra inveca, nell’intus legere con la giusta attenzione, un attestato d’amore e di compartecipata emozione. Ascoltare, a questo riguardo, come Vincent Chancey s’accosta con delicatezza nel suo assolo al corno francese. Somebody Else’s Idea ha una storia un po’ complessa, perchè inizialmente nasce nel 1955 come brano solo strumentale ma nel 1970, nell’Lp My Brother the Wind, il pezzo riappare con un titolo leggermente diverso e a questa innodica melodia viene aggiunto un testo, intonato da June Tyson. “What seems to be, need not be…” si dice ad un certo momento nella canzone e questo verso è un piccolo manifesto di quello che voleva essere, in fondo, il messaggio di cambiamento e non solo l’intenzione estetica di Sun Ra. Nella versione di Living Sun, il testo cantato viene sostituito da un coro inizialmente proposto dal sassofonista Knoel Scott che canta senza parole. Dietro di lui l’insieme strumentale ondeggia su una mescolanza di ritmiche latine, con quel suo solito aspetto vagamente scoordinato, quell’architettura flessibile che è un po’ il marchio di fabbrica dell’Arkestra. Days of the Living Sky, è un brano dove a dominare è la kora suonata dallo stesso Allen che è anche l’autore del brano, mentre il flauto di Tara Middleton prima, e il sax baritono di Scott poi, punteggiano insieme ad altri fiati il nervoso pizzicare delle corde. Solito sottotesto strumentale che evoca ampi paesaggi centro-americani con le percussioni in solida e continua presenza. La musica apre numerose porte laterali che abitualmente teniamo chiuse e scorre lenta, senza fretta, quasi invitandoci in un danzereccio dondolio che è anche un abbandono al carattere inafferrabile di questa melodia, più accennata che non effettivamente sviluppata.

Anche Marshall Groove è opera di Allen e non è tutto come sembra. L’inizio è quasi timido con i fiati stonati che preludono ad un ritmo lento e il sax baritono che s’incrocia coi tenori in un crescendo progressivo, scandito dalle belle e limpide note di piano che appaiono a tratti costituendo la base armonica modale su cui l’Arkestra predilige muoversi. Quando il ritmo accelera prendendo una vaga piega blues, emerge tutto il carattere mercuriale dell’esecuzione con la componente caotica e dissonante che in un primo tempo cresce e decresce ad arte, per poi consegnarsi definitivamente come preda di un caos primigenio. Buona l’idea ma stancante l’esecuzione, a mio parere troppo lunga e alfine anche un po’ irritante. Night of the Living Sky è invece un brano di Sun Ra rielaborato prelevando un frammento dal brano Portrait of the Living Sky, edito in Super-Sonic Jazz del 1957. Il tormentone di sax baritono impostato inizialmene come intervallo di quinta giusta è l’abbrivio per l’ossessiva ripetizione dello stesso a costituire un bordone che segue quasi tutta la composizione, con brevi momenti di abbandono prima della metà brano. Qui non si raggiunge mai l’anarchia del pezzo precedente e i fiati irrompono e si ritirano conseguentemente lasciandosi però alle spalle l’idea di una totale deriva, restando invece legati ad una performance che non perde mai interamente il controllo. Merito soprattutto dell’accompagnamento di base, due-note-due che caratterizzano l’intero spirito del brano. Con Firefly veniamo proiettati in un film di Woody Allen intriso di nostalgia per un mondo perduto, sgangheratamente irriso dalle dissonanze ululate dal sax di Allen (Marshall!!) e dal resto degli strumenti che paiono accordati alla speraindio. Ma è tutto un trucco, un illusione, questa realtà non è tale ma solo uno dei tanti universi possibili. L’Arkestra sembra essere sempre ad un centimetro dal delirio ma poi riprende sé stessa con ironia attraverso delle inaspettate armonizzazioni corrusche e illuminanti. Come ad esempio l’assolo di piano in stile Erroll Garner che sta ad un tiro di voce dal finale. Certe esibizioni come queste mi ricordano, lo dico con tutto l’affetto possibile, quegli spettacoli circensi dove, nel mezzo di un’orchestra impeccabile, salta fuori il clown che volutamente stona in modo drammatico, facendo scattare l’ilarità del pubblico. Ma questo non è un circo, o forse sì, l’intera esistenza descritta dalla Arkestra si muove tra il gioco, l’immensa conoscenza tecnica e armonica e la dissacrazione dei luoghi comuni. Insomma, un brano fantastico e da amare incondizionatamente. La chiusura è affidata ad una cover, la strafamosa Wish Upon a Star composta da Leigh Harline e Ned Washington nel 1940, utilizzata da Walt Disney come parte del soundtrack del film d’animazione Pinocchio. La traccia viene introdotta da un bell’intervento di pianoforte su cui subitamente interviene Allen con le sue disarticolazioni sonore. Ma l’Arkestra procede imperturbabile in un meraviglioso accompagnamento in puro stile anni’40 e alla fine tutta la struggenza del brano, basato sulla credenza antica dell’espressione d’un desiderio al cadere d’una stella, si maniene quasi intatta. De-sideris, appunto, qualcosa che apparteneva al firmamento e che scende verso terra, come la musica dell’Arkestra che ha origini celesti ma che tende, volontariamente, in piena antitesi narcisistica, a corrompersi progressivamente avvicinandosi al suolo.

Per sintonizzarsi sulle frequenze della Sun Ra Arkestra bisogna amare quelle loro composizioni deliziosamente decentrate ma ricche di sorprese, di poesia, di un malizioso senso dell’umorismo e qualche volta anche di momentanee e vorticose parentesi caotiche. Senza dimenticare che i suoi componenti non sono una combriccola d’improvvisatori raccattati dalla periferia del jazz, ma un vero insieme di maestri che giocano seriamente con la Musica, le cui credenziali si trasmettono generazionalmente, come un filo invisibile che unisce tra loro idee ed emozioni.

Sun Ra Arkestra:
Marshall Allen – Alto Saxophone, Kora, EVI
Knoel Scott – Tenor Saxophone, Baritone Saxophone
Nasir P. Dickerson – Tenor Saxophone
Chris Hemingway – Tenor Saxophone
Michael Ray – Trumpet
Cecil Brooks – Trumpet
Vincent Chancey – French Horn
Dave Davis – Trombone
Robert Stringer – Trombone
Farid Barron – Piano
Dave Hotep – Guitar
Tyler Mitchell – Bass
Wayne Anthony Smith, Jr – Drums
Ron McBee – Percussion
Jorge Silva – Percussion
Elson Nascimento – Percussion
Tara Middleton – Violin, Flute
Gwen Laster – Violin
Melanie Dyer – Viola
Kash Killion – Cello, Sarangi

Tracklist:
01. Chopin (7:46)
02. Somebody Else’s Idea (6:22)
03. Day of the Living Sky (6:03)
04. Marshall’s Groove (11:05)
05. Night of the Living Sky (11:32)
06. Firefly (10:01)
07. Wish Upon A Star (6:36)

Photo © Vladimir Radojicic