I N T E R V I S T A


Articolo di Sabrina Tolve

Inizia con un saggio che ha questo nome, il libro ARDECORE 996 Le canzoni di Giuseppe Gioachino Belli, edizione Squilibri.
Il libro, di 133 pagine, raccoglie – oltre al saggio di cui sopra scritto dal critico letterario Marcello Teodonio, presidente del Centro Studi “Giuseppe Gioachino Belli”, direttore della rivista di studi belliani «Il 996», nonché segretario scientifico del Comitato Nazionale delle Opere di Belli – le illustrazioni di Marcello Crescenzi (pagg. 32, 36, 48, 64, 80, 94 e 110), quelle di Scarful (pagg. 14, 32, 52, 68, 90, 106 e 122) che si è occupato anche della copertina, quelle di Claudio Elias Scialabba (pagg. 18,  36, 40, 56, 76, 98, 118, 127 e 128) e Ludovica Valori (pagg. 22, 44, 60, 72, 86, 102 e 114) e le fotografie di Daniele Bianchi.
Per ogni sonetto abbiamo dunque un’illustrazione, lo spartito musicale che accompagna il sonetto, il sonetto stesso con le note del Belli e le note di Teodonio a fronte.
Il libro fa anche da supporto ai due volumi dell’album omonimo, di cui abbiamo parlato qui (link).
Per approfondire meglio il lavoro immenso che gli Ardecore hanno dedicato al Belli, ho incontrato virtualmente Giampaolo Felici che mi ha regalato questa bellissima intervista.

Inizio subito con una domanda un po’ bizzarra: perché Belli e non Trilussa?
Abbiamo scelto Belli per tutta una serie di motivazioni, ma probabilmente quella più importante è lo studio della lingua romana, quella del popolo. Belli aveva in mente la costruzione di una grammatica tutta romanesca, partendo da una parola scritta che potesse rispecchiare quella pronunciata. Trilussa è stato decisamente un grande ma Belli definisce la parola e il linguaggio di Roma, e lo fa non solo per la Roma del suo tempo ma lo fa pensando anche alle generazioni future.
Belli ritrae una Roma di oltre cento anni fa, ma il linguaggio della città è rimasto ancora fondamentalmente quello. Ovviamente il romanesco di adesso si è arricchito di nuovi linguaggi, trovando una dimensione e anche uno spazio diversi da quelli del Belli – eppure il lavoro del poeta è ancora centrale nella tradizione linguistica della città eterna, perché autentico e veritiero.

Belli era infatti molto legato al tema della verità e questo è uno dei motivi per cui nei suoi Sonetti romaneschi fa parlare la plebe col suo proprio linguaggio. In La Verità II, Belli scrive: “la verità è ccom’è la cacarella /Che cquanno te viè ll’impito e tte scappa /hai tempo, fijja, de serrà la chiappa /E stòrcete e ttremà ppe rritenella…” – ora, a parte la quartina colorita, quanto avete tentato di mantenere quella stessa verità e autenticità, con il vostro lavoro?
Abbiamo tentato il più possibile di attenerci all’idea di autenticità e verità del Belli. Lo abbiamo fatto principalmente mantenendo il sonetto nella sua struttura di due quartine e due terzine, lo abbiamo fatto mantenendo le rime il più possibile, e se ci sono state variazioni lo abbiamo fatto magari più nella pronuncia di alcune parole che in altro.
Come detto precedentemente, quello che abbiamo deciso di fare con questo progetto è stato appunto mantenere l’operazione belliana di ritrarre la Roma dei suoi tempi, e di rispettare quella fotografia come documento e lascito per le generazioni future.
Non so se Belli sapesse all’epoca che questo suo lavoro sarebbe diventato poi così importante. Del resto parliamo di una Roma di duecentomila abitanti circa.
Però per noi questa eredità è un atto d’amore per la sua città e il suo popolo, e abbiamo voluto mantenerne intatto il più possibile.

Quanto, della Roma papalina e preunitaria, è rimasto oggi?
Ovviamente a distanza di oltre cento anni molte cose sono cambiate: parliamo di una Roma interna alle mura aureliane – adesso la città si estende ben oltre il GRA. Questo ha permesso alla città di aprire i suoi orizzonti e ai romani di approcciarsi ad altre realtà.
In questo senso quel modo di essere romani si è corrotto, e quell’ignoranza popolare fatta di superstizioni si è trasformata in saggezza.
Alcuni modi di fare, alcune caratteristiche, quelle sono rimaste le stesse perché parliamo comunque di un terreno comune a molti.

Ecco, proprio per quel che concerne alcune delle caratteristiche che non sono cambiate, nelle poesie romanesche del Belli – e in parte della tradizione letteraria romanesca in generale -, l’uso del comico diviene spesso strumento di critica alla società. Cosa pensi a riguardo?
Beh lo sfottò è sempre stato un po’ preludio e caratteristica della satira e del comico, è un modo per sottolineare in modo lieve qualcosa che lieve non è.
Ho ritrovato questo atteggiamento certamente anche nelle zone a Sud di Roma ma non so dirti come si sia espanso, o se ci siano state influenze provenienti proprio da Roma.
Qui a Roma il comico è un po’ presente ovunque, anche nelle minacce per dire. Abbiamo tantissime espressioni a riguardo, per esempio: te do li schiaffi a due a due finché nun diventeno dispari oppure te do ‘no schiaffo che ‘r muro te ne dà ‘n artro. Ovviamente lì per lì la cosa sembra simpatica, ma quando sei piccolo e a minacciarti è tua madre, quelle parole prendono una piega diversa.
La verità è che questo è uno dei modi di Roma di gestire le emozioni – e a ben vedere anche la città stessa, un modo per parlare di problemi e difficoltà anche quando non se ne ha il coraggio o la forza, un modo insomma per edulcorare le preoccupazioni. Credo che questa sia un po’ una tradizione, ecco.

Sempre a proposito di tradizione, c’è un collegamento tra gli stornelli ritrovati di Vecchia Roma e i sonetti del Belli?
Dunque, io direi che c’è un collegamento tra tutti i nostri album, non solo tra gli ultimi due. Abbiamo fatto certamente un percorso a ritroso parlando del pre-guerra italiano con i primi due album e chiudendo parlando prettamente di Roma con gli ultimi due. L’idea del nostro progetto è sempre stata quella di creare una sorta di dimensione sliding–doors, tentando di disegnare un’evoluzione musicale alternativa dall’inizio della discografia ad ora, avendo come base il folk. Questa è certamente un’idea utopica, ma abbiamo tentato di fare ricerca, e camminare all’indietro ci ha aiutato molto.
Per noi la musica è importante tanto quanto i testi, e la cifra stilistica è basata proprio su quella ricerca musicale che parte dal folk e dalla tradizione, e li usa come base per arrangiamenti.
L’Italia è un Paese diverso, rispetto al resto dell’Europa. Mi viene da dire anzi che sia un luogo un po’ chiuso per quel che concerne questo tipo di approccio, motivo per cui abbiamo tentato con gli Ardecore di internazionalizzare questo concetto.
Se in Inghilterra e in Irlanda, ad esempio, il folk è stato il punto di partenza per lo sviluppo del rock, della musica sperimentale e progressiva, in Italia si cresce in direzione della musica leggera e popolare, nel senso proprio di pop music. Noi abbiamo tentato di guardare altrove. Ma come dicevo prima appunto, per noi i testi sono importanti quanto la musica, anzi direi che per noi la musica traina le parole, ma legandosi a questa dinamica stilistica.
Tentiamo sempre di trovare la migliore scelta sonora, e lo abbiamo fatto sempre, lavorando ad ogni album. E ogni album ha avuto una sua logica.
Personalmente ognuno di noi è legato ad ogni album per motivi diversi: io sono legato all’ultimo perché ovviamente sono cambiato, e perché l’ultimo è quello che mi somiglia di più. Quando ascolto il primo album ci sono cose che cambierei ora come ora, cose che farei diversamente; ma credo che questo dipenda dal fatto che ogni album sia diverso e rappresenti il senso di immediatezza avuto durante la sua lavorazione. Mi rendo anche conto però che senza gli altri album, l’ultimo sarebbe stato diverso da com’è ora. Ed è normale, è una sorta di antropologia musicale, ecco.

Com’è nata la struttura musicale ad ogni sonetto? Da cosa vi siete fatti guidare?
Per questo album abbiamo scelto inizialmente i testi, ma nello sceglierli abbiamo mantenuto una sorta di apertura mentale. Abbiamo tentato di rispettare i colori di ogni sonetto e mantenerne linee e sonorità. Poiché l’album è diviso in due volumi, abbiamo provato a non essere ripetitivi e ad allargare lo spettro del suono. Ovviamente il testo ha influito ed è stato fondamentale nelle scelte sonore fatte. Per esempio, per Uno mejo dell’antro che richiamava una sequela di nomi obsoleti, abbiamo voluto dare un’idea di compagnia solida, una banda dura hard e punk; La carità invece ha un approccio diverso, è un brano razionale, serio, severo se vogliamo, che indica le sofferenze del popolo e della gente. Per questo abbiamo optato per un brano molto vivo e ritmato – se avessimo scelto una trama sonora simile al testo, avremmo creato un brano oscuro, triste ed eccessivamente cadenzato.
Ci siamo fatti guidare da momenti e situazioni, e con la musica abbiamo tentato di descrivere sentimenti diversi, monologhi, difficoltà; abbiamo cercato di creare idee e sensazioni, e devo dire che questo è stato il momento più interessante: il nocciolo della fase creativa, in cui dare uno sfondo diverso ad ogni sonetto.
Ho detto prima che musica e testi hanno la stessa importanza. Il fatto di avere testi già pronti è stata un’ulteriore sfida: abbiamo dovuto creare brani che avessero un impatto. Brani come Campo Vaccino, La mmaledizzione o Er biastimatore hanno avuto maggior bisogno, ad esempio, di una compenetrazione musicale, in cui il senso degli arrangiamenti potesse sviluppare un lavoro di interpretazione vera e propria.

La terzina finale di Er Decoro, recita: “Duncue sta verità tiettela a mmente/ che cquaggiú, Checca mia, se pò ffà ttutto,/ bbasta de nun dà scànnolo a la ggente”. Pensate che sia ancora un po’ così in Italia?
Beh, di fatto questa terzina sottolinea l’ipocrisia della gente, non solo del popolo romano. Quindi direi che è una terzina ancora molto moderna.
Per fare un passo indietro ai tempi del Belli, il popolo di Roma aveva imparato a non rispondere ai dettami di chi comandava, a rassegnarsi ai soprusi e a tirarsi fuori dai problemi semplicemente ignorandoli o evitandoli.
Creare scandali all’epoca era molto più semplice di adesso. Se guardiamo la Roma attuale, abbiamo di fronte una città immensa che diventa un mondo a parte già per le distanze, ed è un mondo che si autoalimenta e in cui le tradizioni si accumulano ad altre tradizioni. Roma è sempre stata una porta verso mille confluenze in cui popoli, razze, lingue e costumi si sono aggregati col tempo, e dunque molti sono i caratteri acquisiti del popolo in quanto tale.
La romanità è sempre in movimento e non si scandalizza mai. Ha una concezione molto forte di accoglienza, nonostante la decadenza nei secoli.
Il problema forse è che questa sorta di rassegnazione già presente ai tempi di Belli, è diventata una caratteristica nazionale che si divide tra sincretismo e sinergia e tra indifferenza e abbrutimento.
Ci si lamenta moltissimo di Roma: buche, strade rotte, secchioni pieni di immondizia, ma se si nasce nel degrado, si cresce nel degrado. Se non ci sono esempi di civiltà, si continuerà a non avere un senso civico.
Si potrebbe fare molto altro, perché Roma sa essere tanto bella quanto difficile.
Scusami se sono andato fuori tema.

Non c’è problema, assolutamente.
Ho un’altra curiosità: come avete fatto a scegliere questi trenta sonetti, in oltre duemila scritti dall’autore?

A dire la verità volevamo lavorare su un totale di cinquanta brani, ma non c’era abbastanza spazio sui supporti quindi ci siamo adattati.
I sonetti sono stati scelti principalmente nei primi due volumi: dopo i primi 1500 sonetti, ci è sembrato che il Belli avesse già affrontato temi importanti per il suo tempo, e che avesse già descritto efficacemente il popolo di Roma.
Non volevamo forzare nessun argomento, né aggiungere sonetti per forza. Molti sonetti ci sono sembrati troppo difficili da musicare, per altri invece la scelta è stata decisamente emotiva.
Volevamo tratteggiare ritratti appassionanti, intuitivi. Io sono andato avanti finché il quadro non mi è sembrato logico, ma il senso era appunto quello di tratteggiare immagini, fotografie.
L’istinto è stato molto importante in questo ma abbiamo comunque mantenuto temi che rispecchiassero i motivi per cui abbiamo deciso di fare questo album.

La seconda quartina di Accusi’ va er monno recita: “Che tte preme la ggente che vvierà,/ quanno a bbon conto sei crepato tu?/ Oh ttira, fijjo mio, tira a ccampà,/ e a ste cazzate nun penzacce ppiù”. Quanto è moderno ancora questo modo di pensare?
Ovviamente questo è un atteggiamento che ha dei lati negativi, e rappresenta un’immagine egoista.
La scelta di questo sonetto però ci sembrava necessaria per spiegare il significato del cosiddetto menefrego romano che i fascisti hanno ben pensato di far diventare il simbolo dell’indifferenza nei confronti dell’altro ma che è in realtà un concetto ben diverso.
L’idea è: puoi farti il carico di tutti i problemi del mondo, ma devi esserne consapevole, perché questo comporterà vivertela male, e quello poi sarà il tuo destino. Era un insegnamento forse un po’ cinico ma certamente non crudele.
Va bene ed è giusto farsi carico dei problemi e delle ingiustizie, ma bisogna capirne le possibili conseguenze, perché ci vuole coraggio. E a volte, se manca il coraggio o non se ne ha la forza, va bene fregarsene.
Il menefrego romano è ben lontano da apatia e insensibilità.

Ci sarà un altro capitolo della vostra carriera artistica, dedicato interamente alla poesia romana?
Sai che ci stavo pensando ieri? Onestamente adesso non lo so.
Questo progetto è legato a doppio filo a Roma, anche quando abbiamo allargato il tema rimanendo in Italia, ma come ho detto precedentemente in qualche modo abbiamo sempre legato la nostra ricerca del passato.
Bisognerà capire quale sia la direzione più logica da prendere. Potremmo sviluppare singoli capitoli dell’ultimo album o creare un lavoro corale con amici che reinterpretino i brani, ma sarebbe comunque un tipo di continuazione breve.
Davvero non lo so.
Il nostro progetto continuerà a posizionarci comunque lontano dalla musica sanremese e dalla parrocchia musicale italiana, ma ad oggi non so darti altre certezze.

Photo © Daniele I. Bianchi