R E C E N S I O N E


Articolo di Sabrina Tolve

Un album in due volumi, usciti rispettivamente il 3 giugno e il 6 ottobre di quest’anno, 996 – Le Canzoni di G. G. Belli racchiudono 28 dei 2297 sonetti composti da Giuseppe Gioacchino Belli (firma numerica anonima 996) tra il 1831 ed il 1847, ed editi postumi tra il 1864 e il 1865. L’opera è accompagnata da e accompagna un libro, edito da Squilibri, che permette l’accesso all’ascolto in streaming e download dei due volumi, attraverso un QR Code. Il libro contiene i ventotto sonetti con le note autografe del Belli, le partiture, illustrazioni originali realizzate da Marcello Crescenzi e Claudio Elias Scialabba e un’importante prefazione di Marcello Teodonio, presidente del centro studi ‘G.G. Belli’, direttore della rivista di studi belliani «Il 996», e segretario scientifico del Comitato Nazionale delle Opere di Belli.[1]
Le Poesie Romanesche o Il 996 o La Commedia Romana (tutti titoli provvisori dati dal Belli al suo corpus poetico in vernacolo romanesco) racchiudono un quadro popolare che non è andato disperso e che fonda le sue origini nella poetica satirica e giocosa latina estendendolo sino a noi. Gli Ardecore, che già ci avevano deliziato con Vecchia Roma nel 2015 (ne avevo parlato qui), proseguono con un lavoro filologico che ridisegna il Belli in chiave moderna: i versi dei sonetti non sono stati scalfiti, ma la struttura musicale – principalmente acustica -, ne rinforza suoni e risate, bestemmie e invettive, brutalità e rassegnazione.

Ogni sonetto – o brano, se vogliamo – ha un’organizzazione musicale a sé stante, e si sgancia dagli altri sonetti per tipologia ritmica, strumentazione, intensità, timbro. In questo modo, si dipanano dipinti e ritratti di una plebe che ci somiglia ma che è anche molto lontana da noi, e forse è questa la forza del Belli: raccontare un popolo i cui valori e vizi sono ancora forti in noi, ma che di fatto è andato perduto. Roma non è più quella papalina e preunitaria dominata dal Papa Re e i suoi bravi, dai prepotenti che “Io sono io, e voi non siete un cazzo”[2], ma di quella Roma e di quell’Italia ci è ancora rimasta la visione e la vicinanza di un popolo cupido e poco istruito, che si fa spettatore della storia, senza farla, e tirando a campare senza ambizioni e senza coinvolgimenti, diffidando dalla politica, dalla medicina, dagli intellettuali di turno, e confidando in superstizioni che resistono al tempo.

Giampaolo Felici si fa attore all’interno di questi due volumi, tanto quanto il Belli dell’‘800. Ma se uno ci mette dentro sentimento e anima nel ridarci protagonisti lucidi e attenti, il Belli era solito recitare versi sotto richieste pressanti d’amici, senza mai lasciarsi andare ad un sorriso o un’espressione d’empatia, senza interpretazione alcuna, perché ci teneva a sottolineare che quella era la voce della plebe, non la sua.
Nell’introduzione ai Sonetti romaneschi, il Belli dichiara la sua voglia di tracciare un’immagine ironica, ma anche triste e realistica dei popolani di Roma, quasi che tutti gli appartenenti alle classi sociali più basse fossero rozzi, allergici alla cultura e alla scolarizzazione, rassegnati e sonnolenti. Eppure quel che viene fuori è un simulacro di miseria e buona carità, opportunismo e pietà, quotidianità connessa ad un esistenzialismo sacro e profano.


La critica feroce al potere danza sullo studio ortografico e fonetico della lingua romanesca, per farla più vera e reale, ma per farla anche più leggera e canzonatoria, senza eccedere nell’aggressività e nella violenza, in un tessuto corale che fanno di tanti piccoli episodi un microcosmo abbandonato a sé stesso, serissimo nella sua comicità e nell’infamia della vita.

Restituendo non solo a Roma, ma all’Italia intera, questa piccola gemma belliana, gli Ardecore si fanno portavoce di un vero monumento letterario: è un nuovo scossone alla società organizzata, un’esplosione di sberleffo e vituperio che sfoga nella dissacrante forma chiusa del sonetto, un’opera buffa ampia e magnifica che prende aria e respiro non solo sugli accenti dei versi, ma sulle note d’ogni brano.

Gli Ardecore sono: Giampaolo Felici, Adriano Viterbini (I Hate My Village, Bud Spencer Blues Explosion) Jacopo Battaglia (Zu, Bloody Beetroots), Giulio Favero (Teatro Degli Orrori), Massimo Pupillo (Zu), Geoff Farina (Karate), Ludovica Valori (Nuove Tribù Zulu), Gianluca Ferrante (Kore), Marco Di Gasbarro (Squartet).


[1] Teodonio è anche famoso per i volumi editi presso Laterza: Introduzione a Belli (1992), Vita di Belli (1993), e La letteratura romanesca. Antologia di testi dalla fine del Cinquecento al 1870 (2004). Teodonio ha anche curato l’edizione completa dei 2.279 sonetti romaneschi belliani, pubblicata da Newton Compton nel 1998.

[2] G. G. Belli, Sonetti romaneschi, Li soprani der monno vecchio – 21 gennaio 1831 – verso ripreso in Il Marchese del Grillo, regia di M. Monicelli, 1981

Tracklist:

Volume 1
01. Campo Vaccino
02. Er cimiterio de la morte
03. Er zagrifizzio d’Abbramo
04. La strega
05. Er decoro
06. La poverella
07. L’aribbartato
08. Campa e llassa campà
09. Uno mejo dell’antro
10. Er confortatore
11. Er codisce novo
12. La carità
13. Er negoziante fallito
14. La creazzione der monno
15. La fin der monno
16. Er giorno der giudizzio

Volume 2
17. Caino
18. Er biastimatore
19. La vedova co ssette fijji
20. La mala fine
21. Li manfroditi
22. La providenza
23. Er coronaro
24. Er romito
25. Er vino
26. Vonno cojjonatte e rrugà!
27. Le mmaledizzione
28. Accusì va er monno


Photo © Daniele L. Bianchi