R E C E N S I O N E


Recensione di Andrea Notarangelo

Accompagnato da una sola lettera firmata e non da un tradizionale comunicato stampa, 12, il nuovo album di Ryuichi Sakamoto, si presenta come un’opera strana e disturbante. Non è un disco semplice e non è mai facile aver a che fare con musicisti affermati, soprattutto se stanno affrontando un momento complesso della propria esistenza. La lettera poco sopra menzionata, è scritta dall’artista di suo pugno e ci vuole informare sulle sue condizioni fisiche e sul fatto che sta lottando per poter continuare a fare ciò che più gli piace nella sua vita. Incipit d’obbligo. Chi si trova a recensire dischi, lo si fa non appena possibile sempre alla costante ricerca del tempo perduto e quando l’uscita del lavoro dell’artista è imminente. O anche qualche giorno prima, presumibilmente per battere sul tempo altri colleghi. O forse, per dimostrare con quanta semplicità è possibile pubblicare uno scritto di qualche centinaio di parole. Trovo tutto questo abbastanza irrispettoso, perché sono d’accordo sui tempi stretti che caratterizzano l’attuale società dei media, ma in questo modo si rischia di parlare di qualcosa perché se ne deve parlare e non perché si ha il piacere di farlo. In questo modo entrare in contatto con qualcuno e interiorizzare il suo operato, diventa difficile a prescindere dai propri gusti e dai valori soggettivi che inevitabilmente attribuiamo.

Non voglio parlarvi di Sakamoto in quanto essere umano consapevole della propria malattia e dell’impegno che ha messo sul lavoro presentato, perché ritengo che la via scelta sia sensibilmente diversa da quella di altri due pesi massimi come David Bowie e Leonard Cohen. Nel caso del Duca Bianco, la scia siderale della sua Blackstar (dal titolo del suo ultimo disco), è stata segnata dalla data di uscita corrispondente al suo compleanno (8 Gennaio), e quasi dalla sua data di scomparsa (due giorni dopo, il 10 Gennaio). Nel caso di Cohen, molto più semplicemente per l’avanzare dell’età. E qui siamo già all’interno della recensione perché vi racconto che il musicista giapponese ha deciso di fare di necessità virtù, facendo quel che si può con quel che si ha. Per il resto, per entrare nella sua nuova fatica musicale, dovremmo cambiare paradigma, dovremmo lasciare stare la lettera e tutte le news che si rincorrono su di lui. Dovremmo immaginarci Ryuichi come un signore settantenne giapponese impegnato a curare bonsai, suonare per diletto oltre che per lavoro e intento a provare qualche nuova ricetta (culinaria, musicale,…), per imparare cose nuove. E invece è una persona in stato di salute delicato e che sta proseguendo facendo ciò che sa fare meglio senza però creare un testamento come nei casi sopra citati.

Questa volta, per scelta, l’artista ha deciso per un’opera anonima, senza titoli per le sue canzoni, se non la data di realizzazione; ed è così che ci immergiamo in 20210310, un dark ambient di ottima fattura che non caratterizzerà tutto l’album ma servirà a dare una scossa all’ascoltatore, a separarlo dalla realtà per accompagnarlo in un nuovo mondo fatto di accordi, respiri e poco altro. 20211130 è intrisa di una perfetta aurea autunnale, con una intro che ci riporta ai fasti di una certa musica di classe che ricorda vagamente la September che apriva uno dei dischi fondamentali di David Sylvian, suo amico e sodale compagno nel corso delle rispettive carriere. Sono ben lontani i tempi di Forbidden Colours, dove acquerelli pianistici venivano impreziositi dall’introduzione di stilemi orientali; al suo posto oggi abbiamo una musica classico-ambientale che non ha confini e rivela stati d’animo plurimi all’insegna della descrizione dell’inevitabile. Qui non c’è spazio per l’evocazione della tristezza. Il piano, sempre cristallino in tutte le sue sfumature, sempre perfetto, viene accompagnato dal respiro, più o meno marcato del musicista, che crea così un ritmo irregolare e vero come solo la vita può esserlo. Si alternano così fasi di azione come in 20220202, a fasi più statiche e di raccoglimento, quali ad esempio 20220207. Ed è così che in dodici tracce ci troviamo catapultati in un piccolo manuale d’introspezione dove sembra che la coscienza di Sakamoto si sia separata dal corpo, per osservare all’esterno l’incedere del musicista e il meccanismo di raccolta delle sue esperienze. In quest’opera si viene proiettati ai margini dell’universo, come in alcune canzoni quali 20220214, dove chiudendo gli occhi ci si sente trasportati su un pianeta alieno, del quale non abbiamo contezza, ma che percepiamo come nostro, come se l’essere umano ci abbia già messo piede migliaia di anni fa. A seguire 20220302 – Sarabande (unico pezzo che riporta anche un nome nella traccia), che come un’onda a tradimento ci riporta nel salotto di casa propria, dove un piano caldo ci conforta e ci invita a degustare un tè verde accompagnato da qualche biscotto o da cioccolatini alla menta.

Perché alla fine 12 è un disco di speranza che non ci racconta di come la vita sia tutta meravigliosa, ma ci spiega come sia meraviglioso far parte di questa esistenza, di questo progetto divino che non ci nega piacevoli risvolti ma che ci lascia sempre e comunque ferite che si rimarginano, segni del tempo e cicatrici più o meno evidenti. La speranza è quella di veder nascere un nuovo giorno e con esso un nuovo disco.               

  

Tracklist:
01. 20210310 (6:53)
02. 20211130 (5:22)
03. 20211201 (5:32)
04. 20220123 (8:41)
05. 20220202 (6:23)
06. 20220207 (7:01)
07. 20220214 (9:10)
08. 20220302 – sarabande (3:10)
09. 20220302 (2:52)
10. 20220307 (2:31)
11. 20220404 (2:26)
12. 20220304 (1:09)

Photo © Anna Isola Crolla