R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Tra il giovane chitarrista Daniele Cordisco e Ron Carter ci sono esattamente cinquant’anni di differenza. Un’alleanza che travalica l’età, dunque, e che permette la comunicazione tra due universi legati da un unico linguaggio, quello del jazz più swingante che viaggia tra classici standard ma anche, come accade in questo disco, insieme ad alcuni brani di nuova composizione dalla netta impronta tradizionale. Mentre quasi tutti gli appassionati di jazz sanno chi sia Ron Carter presumo che non moltissimi conosceranno invece Cordisco. Eppure questo chitarrista, pur non avendo avuto fino ad ora una gran numero di produzioni discografiche alle spalle – credo infatti che questo Bitter Head sia il suo terzo album da titolare in carriera – ha suonato con una serie impressionante di musicisti italiani come Fabrizio Bosso, Roberto Gatto, Flavio Boltro, Danilo Rea, Max Ionata, Stefano Di Battista e altri ancora. Ma anche per quello che riguarda i musicisti stranieri il curriculum di Cordisco non scherza, contando oltre allo stesso Carter, collaborazioni con il batterista Gregory Hutchinson, il sassofonista Eric Alexander, il pianista Julian Oliver Mazzariello, Roy Hargrove, Esperanza Spalding ecc…Complice l’intercessione dell’amico Luca Santaniello, stabilitosi in pianta stabile a New York e che ha fatto da tramite con Ron Carter, il musicista italiano non si è fatta sfuggire l’occasione per intraprendere questa nuova, emozionante avventura discografica dopo l’assenso dello stesso Carter a voler cooperare con lui. Conosciamo il senso della misura del grande contrabbassista del Michigan che non ha “soffocato” con la sua personalità musicale quella del proprio partner, coinvolgendosi nel suo ruolo fondamentale di supporto armonico-ritmico, finalizzando la propria arte al servizio della musica così come appunto la si può ascoltare in Bitter Head.

In questa struttura ben equilibrata si svolge il chitarrismo di Cordisco, loquace improvvisatore dal suono pulito e ben calibrato, privo di inutili nervosismi o tentazioni ipercinetiche. Evidentemente si è raggiunta quella maturità necessaria dove si comprende come la tecnica sia finalizzata alla musica e non viceversa. Nel suo modo di suonare, effettivamente, si può riscontrare l’ombra dei classici maestri Montgomery e Greene ma anche quella di Joe Diorio. Inoltre trovo qualche affinità con un altro chitarrista italiano, anche lui ben rodato negli States, quel Simone Gubbiotti di cui Off Topic si è più volte occupata – potete trovare un paio di sue recensioni qui e ancora qui. Di Carter si ascolta qualche assolo sobrio e ben temperato e alcune sortite dialogiche in cui le sonorità avvolgenti del suo contrabbasso s’incrociano con quelle chiare ed eleganti di Cordisco. La formazione così delineata in questo album prende forma definitiva in un quartetto che comprende, oltre la coppia Cordisco-Carter, anche Jeb Patton al pianoforte – che è stato per lungo tempo membro del Jimmy Heath Quartet – e Luca Santaniello, l’amico che ha reso possibile questo incontro al vertice, alla batteria. Come si sarà già potuto intuire, ci troviamo di fronte a quelle sonorità voluttuose, senza armonie ostili, di stampo mainstream, impostate su uno swing acidulo che ben si adatta ad un pubblico di spiriti quieti che cerca nel jazz soprattutto relax e divertimento però con grande qualità, come lo si riscontra, appunto, in questo lavoro.
Apre l’album Canadian Sunset, traccia originariamente scritta dal pianista Eddie Heywood nel 1956. Carter imposta un riff al contrabbasso trascinando nella sua veste d’abito latino il resto del gruppo, spianando la strada alla chitarra che imposta il tema lavorando spesso sui bicordi secondo lo stile di Montgomery. L’assolo di Cordisco appare sciolto e scorrevole, appoggiandosi sul velluto della ritmica e precedendo un secondo brillante assolo, questa volta di Patton al pianoforte. Una musica fatta di fluttuante leggerezza, direi ben educata all’abitudine armonica e al coinvolgimento ritmico. Segue Tangerine, da non confondere con l’omonimo brano dei Led Zeppelin, essendo invece questo uno standard del 1942 scritto da Victor Schertzinger con il testo originale di Johnny Mercer. Eliane Elias ne fece tra l’altro una gran bella versione nel suo album Dreamer del 2004. L’introduzione è quasi rock con una ficcante combinazione ritmica tra contrabbasso e batteria. Un accordo ripetuto di piano è l’abbrivio per la partenza del tema trainato dalla chitarra. Stacchi, sincopi, swing all’ennesima potenza e un ottimo assolo di Cordisco, seguito da una corsa in puro be-bop senza respiro ad opera del piano di Patton. Lo strumento di Carter pulsa vibrazioni in tono grave mentre Santaniello s’impegna in una serie di veloci stacchi sul rullante come un redivivo Gene Krupa. Mr. P. B. è un brano di Cordisco, composto con gli stilemi preferiti dall’Autore, quindi con interruzioni e riprese che lambiscono il continente del blues. La struttura del brano si avvale degli assoli di chitarra, di piano – sempre più squillante – e di contrabbasso. Carter lo imposta con un assetto molto cantabile dandogli così la doppia funzione ritmica e melodica. Il tema è accattivante, con un finale che lo è altrettanto, costruito su una sequenza di accordi in progressione discendente. Angel Eyes è invece uno standard composto nel 1946 da Matt Dennis ed Earl Brent. A proposito di questo brano, su YT circola un video in b/n in cui possiamo goderci una versione live da brividi di Ella Fitzgerald. Anche qui è un riff di contrabbasso a preludere al tema chitarristico che mantiene un andamento lento, trattenuto e delicato ma con la ritmica sempre robusta e un contrabbasso che raramente capita di ascoltare suonato così bene. La chitarra si sporge ad un assolo maggiormente rarefatto rispetto al solito, mantenendosi in linea con un mood leggermente più austero rispetto ai brani fin qui ascoltati.

Come Rain or Come Shine è un altro standard, anch’esso come il precedente targato originariamente 1946 e realizzato da Harold Arlen e dal “solito” Johnny Mercer. Un brano moderato, disossato e pianoless, asciutto come forse lo avrebbe editato un John Abercrombie in trio. Sarà forse perché personalmente prediligo le formazioni incentrate proprio su tre musicisti, al di là degli strumenti suonati, che questo brano mi sembra nella sua essenziale, nuda bellezza, quasi una storia a sé. La chitarra si concede anche qualche accennato sviamento dalle note canoniche durante il suo assolo. Il contrabbasso di Carter ci mostra uno dei suoi melodici e metrici assoli, con la batteria che stacca con precisione e discrezione movimentando al punto giusto l’intera esecuzione. F.R.C. è una sigla che sta per for Ron Carter, una sorta di omaggio-ringraziamento alla presenza del contrabbassista. Il brano è un eloquio be-bop, quasi un manifesto dello stesso stile. Ben suonato, per carità, nemmeno ci sarebbe bisogno di ricordarlo ma a mio sindacabile parere eccessivamente retrò e un po’ didascalico. Bitter Head è il pezzo omonimo del titolo dell’album. Cordisco predilige le progressioni di accordi discendenti, evidentemente, perché in questo caso questa sequenza viene proposta come incipit del brano. In un involucro blues l’assolo della chitarra raggiunge probabilmente il suo massimo eclettismo ed espressione tecnica, forse l’unico momento in cui Cordisco evidenzia più platealmente la sua abilità sul manico dello strumento. Il piano di Patton ricorda che ci si trova nell’ambito del blues, con una serie di passaggi canonici sui gradi I-IV-V, seguiti da un walking-bass di Carter perfetto nella sua cadenza. In conclusione si presenta in scaletta il gioiellino di Autumn In New York, classico standard di Vernon Duke scritto nel 1934 che come si sarebbe detto un tempo, vale da sé tutto il disco. Un duetto ad incastro perfetto tra l’elegante chitarra ed il contrabbasso che dimostrano di essere musicalmente in perfetta sintonia. Ed è veramente un piacere ascoltare la cavernosa cavata di Ron Carter che costruisce attorno allo strumento solista – ma a ben vedere, in questo caso, di solisti ce ne sono due!! – un’osmotica tessitura umorale ancor prima del momento del suo vero e proprio assolo dal minuto 5′ e 14” – si tratta in totale di oltre sette minuti di musica veramente ben impiegati. Un vero e proprio mini-trattato sulla fenomenologia musicale del jazz, sulla sua realtà così come ci appare, bella di per sé al di qua di ogni commento.
La tradizione jazz ha trasmesso un lascito molto vasto che alcuni preferiscono ignorare e altri, per contro, seguire pedissequamente. Ma poi c’è una sana via di mezzo, il tanto vituperato buon senso che appare alle menti ingenue come un inutile limite, laddove invece questa soglia marca sì un confine, ma tra arte e spesso presunzione della stessa. Cordisco, in tutta umiltà e affidandosi alla esperienza di Carter, organizza un territorio intermedio che tiene conto dell’insegnamento dei maestri ma nel contempo cerca una propria dimensione autonoma, svincolata dal dover essere per forza, secondo alcuni, allineata in un senso o nell’altro.
Tracklist:
01. Canadian Sunset (5.50)
02. Tangerine (5.46)
03. Mr. P. B. (6.15)
04. Angel Eyes (5.11)
05. Come Rain or Come Shine (5.15)
06. F.R.C (4.25)
07. Bitter Head (6.24)
08. Autumn In New York (7.47)
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