R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Un album in moto perpetuo, questo di Simone Gubbiotti & Christian Pabst, che procede senza ansie né inquietudini. Encounter si rivela in tutta la sua chiarità di opera intensa ed elegante, “semplice” nella sua scrittura ben assimilabile, senza arzigogoli sovrastrutturali, in cui chitarra e pianoforte appaiono per quello che sono, due strumenti “portanti” utilizzati nel modo più armonico e naturale possibile. Una marcata dolcezza d’intenzioni sta alla base di queste costruzioni musicali caratterizzate da un continuo confronto musicale dialogico, in cui i due musicisti vicendevolmente si compenetrano quasi in un unico, lineare flusso melodico. Del chitarrista Gubbiotti c’eravamo già occupati a lungo e volentieri recensendo il suo precedente album #Underdogs – potete trovare la nostra opinione qui. Non posso far altro che ribadire il carattere accanito e sfaccettato di questo musicista che ormai ha trovato una sua dimensione stabile, un suono collaudato – anche se la timbrica del suo strumento non si discosta molto dalla tipica nuance “brunita” di molti chitarristi jazz più tradizionali. Pabst è invece un pianista non ancora quarantenne, di origini tedesche ma trasferitosi da due anni a Perugia, che se non ricordo male, è anche la città in cui risiede Gubbiotti. Realizzando quindi un percorso contrario a quello che fanno molto nostri concittadini, forse anche ispirato – potremmo ben dirlo – dalla storica bellezza della città, Pabst giunge come musicista alla pubblicazione del quinto disco della sua carriera come titolare e co-titolare – in realtà come sideman è comparso in oltre una decina di pubblicazioni – proprio in coabitazione strumentale con Gubbiotti. Il suo è un pianismo eclettico e compiuto, colmo di sentimento e di trasparenze, molto probabilmente influenzato da studi classici, almeno a giudicare dal suo tocco netto e pulito sulla tastiera. Ascoltare questa coppia di artisti significa decentrare lo sguardo da certe ectoplasmiche evoluzioni dissonanti alla moda contemporanea per focalizzare invece l’attenzione sulla materia tangibile della musica, dove anche l’improvvisazione ha un proprio senso costruttivo e la melodia non si fa mai sfuggente.

Il primo brano dell’album, Empire, può forse non chiarire completamente quale sarà il vero orientamento del duo, visto che il pezzo in questione appare come il più “libero” e trasportato dall’improvvisazione, allontanandosi un poco dal mood più raccolto delle rimanenti tracce. Tuttavia troviamo in Empire alcune soluzioni decisamente interessanti. Ad esempio, l’inizio vede la mano sinistra di Pabst impegnarsi in un vero e proprio riff ostinato sulle note basse del piano, a cui segue un tema all’unisono tra mano destra del pianista e chitarra. Gubbiotti si lancia poi con molta discrezione in un assolo che approfitta del riff di piano con un suono – ma sarà l’unica volta lungo il corso dell’album – moderatamente distorto. Quando parte invece l’esecuzione personale di Pabst, molto brillante, quasi squillante a tratti, ascoltiamo la chitarra far le veci di un basso elettrico. Si riprende il tema all’unisono sopra descritto prima che il piano inneschi una variante con una serie di accordi discendenti per riagganciare poi l’implacabile riff di bassi. Gran finale con un bell’intreccio pulito tra i due strumenti in piena trance improvvisativa. Promise To My Friend s’incanala in quello che sarà il canovaccio principale dello sviluppo di questo lavoro. Cambia il timbro della chitarra, muta la duttilità del piano, sempre luminoso, quasi a contrastare la sonorità più introversa di Gubbiotti. Il brano è molto bello, fresco, di gran piacevolezza nella sua impeccabilità tecnica e pulizia sonora. L’afflato poetico viene sottolineato molto dal piano – talvolta pure troppo – con qualche arpeggio un po’ new age, equilibrato comunque dalla voce chitarristica e da quel proprio personalissimo cono d’ombra che essa riesce a creare infilandosi tra le maglie del piano, attenuandone ad arte i riflessi luminosi. New Song ci introduce in un clima latino, aiutati da Pabst che s’ingegna percuotendo gentilmente a mo’ di congas il legno del suo piano. Allungandosi sulla ritmica della chitarra, la tastiera crea un tema scorrevole che rimanda a ispirazioni sudamericane. Bisogna notare che il livello tecnico dei due musicisti è veramente molto alto e versatile. Soprattutto colpisce, a maggior ragione in un brano come questa specie di samba miniaturizzata e adattata alle esigenze di soli due strumenti, il nitore sonoro delle linee melodiche mai inutilmente ridondanti. Lartigue, non so se dedicato al famoso fotografo e pittore francese, appare molto rarefatto, quasi agli antipodi rispetto al brano precedente. Si pratica evidentemente l’arte della sottrazione, quanto e forse più difficile della semplice sovrapposizione di suoni perché si corre sempre il rischio dell’horror vacui, cioè il desiderio compensatorio di riempire a tutti i costi gli spazi vacanti. Invece Gubbiotti e Pabst mantengono il senso della sospensione quasi in assenza di gravità, come in un rimescolio di memorie tremolanti e lontane nel tempo, difficilmente collocabili in un posto definito della coscienza.

Sweet Whistle si presenta con una melodia cantabile – o meglio, fischiettabile – proposta dalla chitarra inizialmente e ripercorsa poi dal piano ed infine suonata all’unisono. Gubbiotti effettizza lievemente il suono delle sue corde, senza comunque uscire mai da una certa morbidezza di base e si alterna in brevi assoli con il piano. La melodia portante è situata in un punto sfocato tra la musica pop e il jazz, con vaghi agganci di forma innodica e appunti sonori che volano rapidi tra chitarra e piano, nell’ormai usuale, morbido colloquio tra i due strumenti. Hybrid Motivation riprende i contatti con il verbo jazzistico con una bella sequenza di passaggi armonici e con la chitarra che come già osservato nel brano d’apertura, si sostituisce temporaneamente al basso per dare un moto swingante in più al procedere del brano. Molto respiro da parte del pianoforte che dilata le possibilità melodiche e allarga lo sviluppo del pezzo in cerca di soluzioni narrative più efficaci. Lawns è l’unico brano non composto dal duo (la maternità è di Carla Bley), lento e delicato, con un passaggio dalla tonalità maggiore a quella minore che offre un impianto quasi elegiaco su cui si avvolgono gli assoli molto essenziali degli strumenti, con un andamento generale assorto e introspettivo. L’ultimo brano è Una Lunga Conversazione, che ribadisce la ragione dialettica di questo disco impostato sui continui scambi sonori ed il sottile gioco degli incastri, direi perfettamente riuscito, qui ed altrove, tra pianoforte e chitarra.

Una piacevole conferma, quindi – ma su questo non avevamo dubbi – della ragione musicale di Gubbiotti e una bella sorpresa per la collaborazione con Pabst. Un pianista molto interessante, quest’ultimo, provvisto di un suono cristallino, quello che ci piace definire come una timbrica “mattutina” per sottolinearne la spigliatezza e l’ottimistico chiarore.

Tracklist:
01. Empire
02. Promise to my friend
03. New song
04. Lartigue
05. Sweet whistle
06. Hybrid motivation
07. Lawns
08. Una lunga conversazione