R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Ho l’impressione, leggendone la biografia, che Margherita Fava, ventisettenne pianista e compositrice trevigiana ma attualmente residente negli USA, sia passata in nemmeno trent’anni di vita attraverso un numero di esperienze tali che la maggioranza dei suoi coetanei non avrebbe mai potuto eguagliare. Figlia d’arte, a contatto fin da subito con le note nobili della musica classica dovute alla professione dei genitori, entrambi musicisti, Margherita dopo un primo approccio col jazz tenutosi in un seminario estivo a Venezia, promosso dalla New School di New York, decide di trasferirsi negli States, prima nel Michigan dove frequenterà il dipartimento di jazz alla Michigan State University e poi alla University of Tennessee. Questa serie di passaggi non avverrà senza pegni dolorosi, passando infatti attraverso problemi depressivi e sentimentali, fino a quando la somma delle proprie consapevolezze umane e musicali non la porterà finalmente a questo album d’esordio, curiosamente intitolato Tatatu. La pianista veneta ha avuto decisamente buoni maestri, a cominciare da quello che lei stessa definisce come suo mentore, il direttore del succitato dipartimento jazz della Michigan University che è anche il produttore di questo album, cioè il contrabbassista Rodney Whitaker – se date un occhio alla sua discografia su WP, tra opere pubblicate come leader e collaborazioni varie, impiegherete qualche minuto solo per sfogliarle tutte. Non meno importante, nello specifico, è la presenza di Gregory Tardy, clarinettista e sassofonista tenorista dall’impostazione morbida che fu l’insegnante di composizione in Tennessee della stessa Margherita. Inoltre, in questo suo primo viaggio all’interno dell’esperienza discografica, l’Autrice porta con sé due suoi collaudati compagni di studio, cioè Michael J. Reed alla batteria e Javier Enrique al contrabbasso.

In una recente intervista rilasciata ad Alceste Ayroldi per Musica Jazz nel marzo di quest’anno, la pianista rivela un particolare che verrà utile nel prosieguo della recensione e cioè ammette tra le sue influenze, non solo altri pianisti come ad esempio Hancock e Donald Brown, ma anche dei fiatisti come Wayne Shorter, Ray Hargrove e Booker Little. In effetti l’ascolto di Tatatu rivela come la presenza del pianoforte non sia preponderante nel contesto dell’album, anzi, si potrebbe pensare di primo acchito di stare ascoltando l’opera di un sassofonista, dato che risulta forse più in evidenza la presenza di questo strumento rispetto al piano stesso. In realtà ci troviamo di fronte ad un lavoro molto maturo e ben equilibrato per essere un esordio, segno che l’Autrice ha ben valutato pesi e misure e distribuito priorità e competenze riuscendo a bilanciare interventi ed espressioni in assoluta proporzione. L’ipotesi di un vero e proprio album collettivo, in cui cioè sia l’insieme di un quartetto a proporsi e non si abbia l’impressione di un solista semplicemente accompagnato da altri musicisti, potrebbe essere stato uno dei motori progettuali di questo album. La scelta dei brani, sei originali e due standard, dimostra come la pianista abbia acquisito negli USA una tecnica di base che è passata decisamente attraverso il bebop, elemento linguistico quasi ineludibile in ogni pianista jazz ben strutturato, ma da cui Margherita Fava si è ben guardata da farsi imprigionare. È invece l’elemento melodico l’aspetto sintattico che sembra prevalere, non privo comunque di quel substrato ritmico così urbano che resta uno stigma ben presente anche nella fisiologia compositiva dell’Autrice. La scelta di un brano di Thelonious Monk, nel contesto della sequenza dei pezzi, non tragga però in inganno. Lo stile della pianista non è monkiano – se non a tratti nel brano Resilience – e non cerca d’istinto costruzioni insolite e asimmetriche. Si mantiene invece prevalentemente in un ambito melodico del tutto personale, dimostrando non solo di possedere l’intero spettro dei fondamentali ma impostando un pianismo delicato senza essere timido, dal buon tocco e dalla grande capacità, è bene sottolinearlo, di amalgamare il proprio suono fondendolo con quello dei suoi compagni di viaggio.

L’inizio dell’album con Face Off è molto melodico, con un tema insinuante e qualche contornatura di stampo classico della tastiera, mentre il pulitissimo sax tenore di Tardy disegna cerchi vibranti nell’aria e mi ha ricordato nella timbrica, qualcosa dello strumento di Michael Brecker nei suoi momenti più intimisti. Il brano che segue, Tidal Waves, risponde alla traccia introduttiva restando nel medesimo clima, luminoso e ben scandito da un paio di accordi maggiori di piano intervallati a distanza di una terza minore. Un effetto quasi ondulatorio, in linea con l’immagine della superficie marina che l’Autrice presumo volesse rendere visibile, s’arricchisce di una serie di sfumature combinate tra sax e piano, una sequenza di subitanee ed insidiose malinconie, turbate solo per un attimo dall’inserimento di qualche accordo più drammatico. Tutto però si stempera in un assolo di piano condotto con aggraziato senso della dinamica sonora e, devo aggiungere, anche con molta sapienza di tocco, scandito da una batteria che segue una ritmica regolare, senza spostamento d’accenti. Il sax rimane nel clima così impostato con una bella performance improvvisata, badando molto alle pause e ai silenzi che abitano le volute del fraseggio. In chiusura sale di quota l’attività percussiva di Reed. Quando arriva il brano di Monk, Rhythm- a-Ning, non si può far a meno di andare con la mente alla traccia originale, fatta uscire nel 1958 in un disco live, Thelonious in Action, con Johnny Griffin al sax. La struttura armonica di questo brano fu composta sullo scheletro di I Got Rhythm di Gershwin e la versione proposta in Tatatu è brillante e personalizzata, con la pianista che dimostra tutta la sua preparazione be-bop, pur mantenendosi al di qua del mondo fascinosamente imperfetto dello stesso Monk. Però l’accordo dissonante reiterato con la mano sinistra mentre la destra s’impegna in un ottimo assolo è forse il più immediato trait d’union con l’indiscusso maestro della Carolina. Anche se Tardy non ha l’aggressività di Griffin al sax non è da meno in scioltezza e nella scelta swingante del fraseggio. Con la seconda parte del brano c’è spazio anche per il contrabbasso e per un suo assolo.

Bird of Passage è forse la traccia più insolita, sorretta da un’iniziale melodia che presenta diversi suggestivi influssi orientali, resi in modo plastico dalla scura timbrica del clarino. Il piano insegue numerosi cambi di tonalità servendosi di un assolo ben studiato, questa volta assai lontano dalle metriche incalzanti del be-bop. Nella seconda parte del brano si riaffaccia un’ulteriore improvvisazione di Tardy, sempre al clarino, che s’appoggia di nuovo al pianoforte, impegnato nell’alternanza di un accordo con la sua 4° sospesa. La ripresa del tema, in chiusura, prelude ad un finale con molti stacchi e controtempi. Resilience esordisce con un tema che mi ha ricordato Harlem Nocturne, più per il modo un po’ languido di trascinare le note alla Illinois Jaquet del sax di Tardy che non per la sua propria costruzione melodica. In realtà dopo il primo minuto e mezzo circa, il brano prende una piega più interessante, un post-bop con qualche devianza vagamente free ottenuta da un bel gioco a incastro di tutti e quattro gli strumenti. Brillano soprattutto il sax più shorteriano ascoltato finora nell’album e il piano di Margherita Fava con un assolo pieno di calcolate dissonanze piuttosto vicino all’influsso di Hancock e persino di Monk. La versione del classico di Jerome Kern- Oscar Hammerstein targato anno 1939, All The Things You Are, lavora elegantemente sul tema e sulle riarmonizzazioni evitando cadute nella melassa – il brano, bellissimo di per sé, invita spesso nelle numerose versioni a cui è stato sottoposto negli anni a qualche eccesso di sentimentalismo – anche per merito di un sax perfetto nell’improvvisazione che ne dà una lettura sufficientemente scarnita, coadiuvato dall’assolo sempre meditato della pianista che preferisce suonare qualche nota in meno ma sottolineando un procedimento melodico chiaro e decifrabile. Restless Mind è un bel rebus ritmico, tutto inserti percussivi, stacchi, frasi interrotte e poi riprese. Per il suo assetto meno regolare si potrebbe paragonarlo a Resilience, anche per quelle vaghe tendenze anarcoidi che lo percorrono dall’inizio alla fine. Ottimo l’intreccio ritmico fra contrabbasso e batteria, in questo brano forse più evidente che mai, anche per il continuo scintillio dei piatti percossi di Reed. Da notare il turgido arrangiamento pianistico e l’assolo allo stato dell’arte eseguito da Margherita Fava. Quello che continua a sorprendermi è la chiarità sonora dell’intero quartetto, la pulizia di tutti i fraseggi e degli incroci strumentali, qualità che del resto avevo sottolineato nella prima parte di questa recensione. Si chiude in totale, appagante bellezza con Hard to Say, un autentico trionfo del clarino che nelle prime battute viaggia in sincrono e in sovrapposizione alle note del piano. Il tema è una dolce reverie che sembra tracciare i limiti di un’atmosfera sognante, sommessamente malinconica. È soprattutto il piano che cuce la trama su cui l’eloquio del sax si avventura con garbato errabondaggio.

La visione di Margherita Fava non è la gelida still life di molte opere di maniera, nemmeno un’avventura senza bussola nei territori aspri dell’avanguardia. La definirei piuttosto come una ricerca melodica personale, attraverso i luoghi canonici del jazz, con i suoi ritmi stringenti e la sempre complessa ricerca di un rapporto tra armonie consonanti e dissonanti. Tatatu è un lavoro dal cielo terso e primaverile, condotto quasi con leggiadria ma anche con attenzione microscopica in ambito di produzione. Occorre infatti rivelare come una certa parte del merito di questo album così ben riuscito, sia da attribuirsi altresì alla bravura dei tonmeister che sono riusciti a creare un equilibrio sonico direi perfetto.

Tracklist:
01. Face Off (1:51)
02. Tidal Waves (5:37)
03. Rhythm-A-Ning (5:03)
04. Bird Of Passage (6:12)
05. Resilience (6:52)
06. All The Things You Are (5:37)
07. A Restless Mind (7:36)
08. Hard To Say (6:57)

Photo © Jacob Hale