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Intervista di Fabio Baietti e Andrea Furlan 

Irlandese di Belfast, Bap Kennedy vanta una carriera davvero invidiabile: cinque album con gli Energy Orchard, gruppo di rockers che una volta sbarcato a Londra è diventato una leggenda della scena live, e sei lavori solisti che gli hanno permesso di incontrare tre mostri sacri della musica. Quanti possono inserire nel proprio curriculum la collaborazione con Steve Earle, Van Morrison e Mark Knopfler? La sua musica è un ponte tra il tradizionale folk irlandese e l’America del country più genuino di Hank Williams, passando per il rock primigenio di Elvis Presley. Recentemente è stato in tournée in Italia per promuovere il nuovissimo Let’s start again. Lo abbiamo incontrato prima del concerto all’Una e Trentacinque Circa di Cantù (di cui vi abbiamo già parlato qui). Ne è scaturita una chiaccherata molto cordiale che ci ha rivelato come Bap sia una persona davvero simpatica e disponibile.

Hai intitolato il tuo il tuo ultimo disco “Let’s start again” e i primi versi della title track dicono “let’s not talk about the old days”. Io invece vorrei riprendere il filo della tua carriera che in trent’anni ti ha visto protagonista di esperienze ed incontri molto importanti. Dagli inizi con gli Energy Orchard alla collaborazione con Steve Earle, Shane MacGowan, Van Morrison e Mark Knopfler, quale periodo ricordi con più piacere e qual è stato il tuo rapporto con loro?
Sono tutte personalità molto importanti. Ogni storia, in modi diversi, mi ha arricchito. Per esempio mi ricordo di Steve Earle e la prima volta che abbiamo condiviso un grande tour in America. E’ stata una nuova esperienza per il mio gruppo proprio eccitante. Van Morrison era davvero carino con me perché eravamo tutti suoi grandi fan, ognuno di noi nella band lo era. Ci siamo incontrati e abbiamo fatto alcuni spettacoli insieme. In quel momento si è creata una grande connessione fra noi, era molto, molto bello. Quando il tour è finito ho scritto alcuni testi con Van Morrison, li abbiamo registrati in studio facendone delle canzoni. Poi mi sono messo in contatto con Mark Knopfler ed è stato fantastico. E’ stato tutto positivo, diverso ed entusiasmante, a partire dai miei inizi. Ancora oggi provo quelle emozioni.

Che cosa significava essere un giovane musicista a Belfast, negli anni dei cosiddetti “troubles”?
Per me è stato un momento davvero importante quando la musica popolare è arrivata a Belfast. E’ stato molto faticoso perché per la prima volta i giovani appartenenti a diverse comunità si ritrovavano, si univano tutti insieme, liberi nella musica. C’era anche qualcuno che non sapeva suonare nessuno strumento, eravamo tutti un’unica band e suonavamo chitarre pensando fosse facile. Non sapevamo quanto fosse difficile essere musicista. Comunque tutti i suoni venivano creati per fare rumore, al fine di far ballare le persone e far colpo sulle ragazze. Questo era.

Quali di queste esperienze sono rimaste nella tua musica?
Probabilmente l’idea di mantenere la semplicità della musica, di basarmi su una sola coppia di accordi. Il punk rock e la musica country ad esempio sono molto simili, hanno le stesse radici. Hank Williams era un punk, davvero, era un “cattivo ragazzo”, con i suoi pochi accordi lui diceva quel che voleva dire, ma ha sempre avuto un’attenzione particolare nel differenziare ogni canzone dalle altre. Quindi per me è importante mantenere le cose semplici, perché questo è davvero difficile da ottenere.

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E’ famosa la frase di Steve Earle che disse: “Townes Van Zandt è il miglior songwriter del mondo e lo direi poggiando i miei stivali da cowboy sul tavolo di Bob Dylan (”Townes Van Zandt is the best songwriter in the whole world and I’ll stand on Bob Dylan’s coffee table in my cowboy boots and say that.”). Di te lo stesso Earle ha detto che sei il miglior songwriter che abbia mai visto. Come ci si sente ad essere in così buona compagnia?
Penso che Steve Earle sia un songwriter pazzesco, quindi è stato bello per me, mi sono sentito grato, sai, il giorno in cui ho saputo quel che aveva detto nei miei riguardi, mi ha fatto sentire molto bene. Non so se lo merito davvero, quando qualcuno come lui dice qualcosa del genere è il più grande onore per un cantautore. Perché tu non conosci fino in fondo le tue qualità, tu scrivi semplicemente canzoni per te stesso e speri che le persone capiscano e apprezzino quello che stai facendo. Quindi è stato bellissimo.

Hai dedicato un disco ad Hank Williams intitolandolo “Hillbilly Shakespeare” ed hai indicato Elvis Presley tra i tuoi idoli giovanili. Qual è il tuo rapporto con la cultura (musicale) americana?
Hillbilly è un termine slang della lingua americana, ma deriva dall’Irlanda e si riferisce ai “Billy boys” dell’Irlanda del Nord. Ecco come è iniziato: abbiamo inventato Hillbilly al fine di creare una connessione tra la musica irlandese, scozzese e americana. E’ un po’ come tornare indietro di nuovo agli anni Quaranta del secolo scorso, tra l’America e l’Irlanda. Ho scelto un tipo di musica che è stata davvero importante per l’Irlanda. Successivamente è stata esportata in America, dove si è trasformata in qualcosa di diverso. Ma questo è il modo in cui va il mondo, è solo la natura circolare che rigenera qualsiasi cosa, anche la musica. In più è una specie di scambio di idee, prospettive, generi, vecchie e nuove scuole che si avvicinano a qualcosa di diverso.

Nella tua musica si avvertono molte influenze musicali, dal folk celtico al country, dal calypso allo swing di alcuni brani dell’ultimo disco. Qual è il trait d’union che accomuna, nel tuo modo di scrivere, questi generi?
Semplicemente amo sia la musica americana che quella irlandese, è diventata qualcosa di universale, proviene da ogni parte d’America, che ha le sue specifiche varietà. A me piacciono proprio tutte le varianti. Si basano su cose semplici, i suoni sono abbastanza diversi tra loro e tutto deriva dallo stesso posto. Mi piace il western swing, mi piacciono i walzer. Tutto quello che vuoi ballare in un giorno particolare, arriva dallo stesso posto. Quindi credo che tutte le varietà siano la stessa cosa. Generi diversi, ritmi diversi, background diversi, ma tutti americani.

Il tuo è un songwriting molto raffinato che rispecchia una persona riflessiva e matura. Come nascono i tuoi brani? Quali sono le tue fonti di ispirazione?
Mi piacciono bei titoli per le canzoni, sai, ad esempio Heart Trouble è nata in un momento di improvvisazione e quando l’ho ascoltata registrata ho scelto questo titolo d’impatto. Abbiamo a disposizione solo un tempo breve, alcuni accordi e pochi versi per raccontare una storia. Ogni riga deve raccontare una storia, quindi devi essere in grado di inserire più immagini possibili in queste poche parole. E’ diverso rispetto a leggere un libro, la canzone ha più o meno sedici righe per narrare una vicenda. Ogni riga deve raccontarne una e avere senso, potrebbe essere messa su una maglietta, o cose di questo tipo.

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Alcune tue canzoni sono state incluse nella colonna sonora di un film. Qual’è il tuo rapporto con il cinema?
Mi piace, sono una specie di “movie buff” abbastanza esperto. Un “movie buff” è un divoratore di film, ne guarda tantissimi. Penso che il cinema sia una forma d’arte fantastica, un mezzo essenziale per creare storie, anche per bambini. Amo François Truffaut, quelli come lui. Mi piacciono anche i registi indipendenti americani. Insomma tutto quanto significhi qualcosa, fatto col cuore e che racconti storie sulla condizione umana. Non voglio vedere esplosioni, qualche volta forse, ma soprattutto io voglio la storia. Ho due film preferiti: “I quattrocento colpi” di Truffaut e ”Apollo 13” . Lo so che sono parecchio diversi tra loro, ma li amo, sono dei capolavori.

Sei già stato altre volte in Italia. Che idea ti sei fatto del nostro paese? Come ti è sembrata l’accoglienza del nostro pubblico?
Mi piace molto il pubblico italiano, lo apprezzo sul serio. In Irlanda per la maggior parte delle persone l’alcol è più importante della musica. Qui vedo più interesse: prima di tutto c’è la musica. E’ fantastico. A voi piace bere caffè, a volte alcol, ma quando il concerto è finito, mentre in Irlanda tutti sono già ubriachi ancor prima che il concerto abbia inizio.

Cosa ti ha più affascinato della vita e della musica di Hank Williams ed Elvis Presley?
Hank Williams è stato un songwriter superlativo. In un pomeriggio ha inciso quattro “classici”. E’ un lavoro complesso, ma lui ha registrato quattro grandi pezzi. Questa non è una cosa comune. Per esempio c’è qualcuno che per incidere le proprie canzoni impiega anni! Hank Williams era davvero un genio. La sua abilità è indiscussa, ed era un grande uomo. Invece Elvis è semplicemente bello, lui è tutto quello che il rock’n’roll dovrebbe essere. La sua arte è affascinante e penso che se Dio avesse una voce canterebbe come Elvis. Aveva tutto ciò che avrei sempre voluto avere io. E’ una superstar del rock’n’roll, in un momento in cui non esisteva una sintesi del rock’n’roll, c’era solo Elvis. E’ per questo che lo amo così tanto.

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Irlanda e USA come fonti di ispirazione. Quali sono le differenze e le similitudini nel tuo songwriting?
In Irlanda la gente sta a casa e scrive canzoni. Ecco perché i Beatles ne hanno scritte così tante, Liverpool, come l’Irlanda, è un posto “al chiuso”. Lì possiamo trovare una ragione per scrivere una canzone, dentro di noi, dentro alle nostre case, dentro alle nostre città. Al contrario in America hanno bellissimi paesaggi. E’ un paese basato sugli spazi aperti. In Irlanda non abbiamo questi respiri così ampi, preferiamo stare a casa a scrivere le nostre canzoni e a bere. L’America è l’opposto, con i suoi meravigliosi paesaggi è una fonte d’ispirazione per creare immagini e suggestioni in libertà. Nello specifico, per quanto riguarda il mio modo di scrivere, penso che la tecnica derivi dall’Irlanda, mentre il paesaggio americano ha lasciato una traccia importante nella mia musica.

Parlaci del tuo impegno per l’autismo…
Nella mia famiglia c’era un caso di autismo, quindi con mia moglie ho iniziato leggendo un libro a riguardo. Successivamente ci siamo messi in contatto con un’organizzazione chiamata Autism in Northern Ireland, dove abbiamo affrontato molte tematiche e condiviso alcune esperienze con altre famiglie. Penso che sia una condizione incompresa, di cui alla gente non interessa molto. Nella società bigotta c’è un ampio spettro di una condizione di vita la cui realtà non è chiara e a volte evitata da alcune persone, la cui opinione è abbastanza ovvia. E’ importante rendere i singoli individui consapevoli e interessati a questo tipo di difficoltà.

L’ultima domanda, quella più classica: quali sono i tuoi progetti futuri?
Beh, devo parlare di Brenda, mia moglie. Prima di incontrarla ero sul punto di arrendermi, ero molto stanco, invece, arrivata lei, ho ritrovato il desiderio di fare musica e suonarla, mi sono sentito come se potessi iniziare di nuovo. Fino ad ora, quel che voglio fare è andare avanti a suonare la mia musica e inventarla. Il genere che suono mi dà la possibilità di farlo mentre, ad esempio, il pop è per cantanti giovani. La musica è qualcosa che puoi fare per mantenerti giovane, è sempre un bene per la tua anima, ti tiene connesso con il mondo, ti rende vivo, per me è vita. Il mio desiderio per il futuro è di continuare fino al momento in cui la gente dirà “basta!”.


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Le fotografie sono di Andrea Furlan

Grazie ad Eleonora Montesanti per la traduzione e a Ellebi per l’adattamento.