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Articolo di James Cook, foto di Andrea Furlan

Seguo Antonio Di Martino dal suo esordio solista “Cara maestra abbiamo perso”, pubblicato a fine 2010. Il disco mi ha colpito immediatamente per la capacità di Antonio di scrivere piccoli film, attraverso testi raffinati e visionari. L’estate successiva ho avuto modo di vederlo dal vivo la prima volta con la sua formazione. La mia curiosità consisteva soprattutto nel fatto di capire come potevano, solo in tre sul palco, riprodurre al meglio le sonorità variegate dell’album. Eravamo a Bergamo, in una serata ventosa con un pubblico distratto e poco numeroso, una delle prime uscite (forse la prima) in cui partecipava il tastierista Angelo Trabace. Insieme a Giusto Correnti alla batteria il trio si è dimostrato perfettamente a proprio agio, al punto di non far sentire la mancanza di altri musicisti sul palco. Da quella sera di strada ne hanno fatta parecchia e il consenso da parte di critica e pubblico è continuato a crescere. Il suono si è via via affinato, smussando alcune derive sonore vicine al punk rock e la poetica dei testi ha portato Antonio a diventare una della voci più autorevoli del cantautorato italiano di questi anni 10.
Ho seguito costantemente la sua maturazione, attraverso l’ottimo “Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile” del 2012, il concept ep “Non vengo più mamma” del 2013 con l’inserimento dell’elettronica, fino al recentissimo “Un paese ci vuole”, uscito da pochi giorni.

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Ogni volta che viene nell’area milanese a suonare cerco di essere presente e con piacere ho avuto modo di condividere la sua crescita.
Antonio Di Martino ha sempre dichiarato che le classificazioni tendenti ad incasellarlo nel mondo “indie” gli vanno strette. Oggi inizia a raccogliere i frutti del suo percorso, trovando anche spazio per esibirsi in locali più accoglienti ed attenti alla qualità del suono. Esattamente quello che è successo mercoledì scorso, in occasione della prima data ufficiale del nuovo tour 2015 presso la Salumeria della musica.
Fuori piove a sprazzi, il pubblico arriva alla spicciolata, ma alle 22:30, quando si spengono le luci, il locale è pieno e la temperatura inizia a salire.
Dalle casse viene diffusa la voce del nonno novantenne di Antonio, narratore di cose perdute, che parla di quando per la prima volta, al suo paese nel cuore della Sicilia, vide un’auto. I tre artisti sul palco, con le loro camice dai disegni floreali, un suono pulito ed essenziale che ci avvolge, ci fanno subito sentire a casa. Il primo brano eseguito è quello che apre l’ultimo album – Come una guerra la primavera – Un pezzo che permette da subito di percepirne la tematica principale: il senso di appartenenza al luogo in cui siamo nati, ma allo stesso tempo la necessità di allontanarcene per cercare un nuovo inizio, una rinascita. Seguono tre brani dal disco del 2012 (Ormai siamo troppo giovani, Venga il tuo regno e Cartoline da Amsterdam).

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Le prime file cantano e saltano, Antonio sorride soddisfatto, con voce sempre gentile ci spiega quello di cui parlano le canzoni. Mentre l’osservo lo sento un ottimo padrone di casa intento a far del proprio meglio per mettere i “suoi ospiti” a proprio agio nell’ascolto.
Ci introduce quindi “Da cielo a cielo” dicendo che parla di casa sua e del posto che ama di più al mondo: la Sicilia, seguita da “Niente da dichiarare”, una visione utopica del mondo in cui non esistono più stati né passaporti. Torna per un momento al primo album con “Cambio idea”, poi riprende l’esecuzione del nuovo disco che, seppure uscito da una sola settimana, nelle prime file si ha l’impressione tutti conoscano già a memoria.
“Le montagne” è la suggestiva storia di due ragazzi che vivono in un borgo sperso tra i monti; quando uno parte per la metropoli porta con se lo spirito e la protezione di questi ultimi. L’inciso di questo brano cita l’inizio di una celebre frase di Pavese contenuta ne “La luna e il falò” che da anche il titolo all’album.
“La foresta”, unico brano strumentale del disco, scritto dal pianista del gruppo, mostra le tastiere in primo piano, creando sonorità dall’evidente richiamo cinematografico, quasi a proporci una breve ma intensa colonna sonora emozionale. L’atmosfera si fa più intima con “Case stregate” eseguita piano e voce, ispirata ai ricordi di quando, un Antonio bambino, con i brividi, frequentava una casa abbandonata che si diceva stregata, salvo poi scoprire recentemente, che si trattava semplicemente di un luogo che aveva abbandonato la nonna di sua cognata.

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Si riparte con l’andamento caraibico de “I calendari”, che rivela la simpatia di Antonio per la musica messicana. Il brano chiude il disco con la frase “tu riconoscimi dagli occhi o dalle linee delle mani basterà”, una dolce e struggente “riflessione acquatica” su quanto i segni di appartenenza non siano cancellabili dallo scorrere impietoso del tempo o dai traumi delle esperienze vissute.
Si prosegue alternando brani nuovi ad altri meno recenti. Mi guardo un attimo intorno e vedo volti sudati ma che esprimono gioia e soddisfazione. Alcuni hanno anche gli occhi lucidi, questo siciliano dai modi educati sa come toccare le corde del cuore.
Come quando parte “Amore Sociale”, commovente quadretto di fallimenti quotidiani e di tragedie sentimentali.
O come quando, presentando “Maledetto autunno” ci dice:”chi la sa la canti, così sembra che sono famoso”. E il pubblico prontamente reagisce con soddisfazione reciproca, cantando e godendo di questi momenti d’intensa condivisione.
Si va verso l’inevitabile finale, Antonio torna sul palco senza farsi pregare e spiega che lui non ce l’ha con Vinicio Capossela, il brano è solo una canzone d’amore (“Ho sparato a Vinicio Capossela”). Proprio in quel momento si sente in sala il rumore un bicchiere che va in frantumi, segno che l’energia sprigionata dal cantautore palermitano è davvero tanta. A chiudere arrivano le liberatorie “Non ho più voglia d’imparare” e “Cercasi anima persa”.

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C’è ancora tempo per un secondo rientro e per concludere veramente la serata con “Non siamo gli alberi”. La canzone recita il titolo del secondo disco che è anche il modo migliore per congedarsi: “sarebbe bello non lasciarsi mai ma abbandonarsi ogni tanto è utile…“
Considerando che questa era la prima vera data del tour, è impressionante come sul palco sia filato tutto alla perfezione. Giusto Correnti si è confermato un dotatissimo batterista, dolce come una carezza e duro come un martello pneumatico, Angelo Trabace ha riempito con grandissima padronanza tutti gli spazi con le sue tastiere, non facendoci sentire la mancanza di archi e fiati presenti nei dischi. Antonio, oltre a scrivere e ad interpretare i brani, si è alternato al basso (suo strumento preferito) e alle chitarre acustica ed elettrica. Il tutto è riuscito a creare un’atmosfera sempre piacevole, a tratti quasi magica, che ci ha accompagnati senza soluzione di continuità per l’intera serata.
E i sorrisi distesi e compiaciuti rimarranno con noi ancora a lungo, a dispetto anche del fatto che, arrivati in autostrada, ci imbattiamo in una serie di acquazzoni equatoriali che tentano di farci prontamente tornare alla realtà.

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