Articolo di Luca Franceschini immagini sonore di Stefano Brambilla
Il Fabrique è pieno a metà, con i teloni scuri che possono mascherare ma non totalmente nascondere questa mancanza. C’è tanta gente ma non c’è il pienone, non c’è isteria. Del resto è così da tempo: i giorni di gloria degli Suede sono finiti da tempo e non è neppure detto che sia un male. Se il loro nome è associato nella narrazione comune ai fasti del Brit Pop (del quale hanno sempre interpretato la versione più glamour e “bowiana”, però), è altrettanto vero che dopo la reunion del 2010, il gruppo di Brett Anderson ha saputo continuare con onestà un discorso artistico che pur non muovendo hype e folle oceaniche come negli anni Novanta, non ha mai mancato di una sua personale coerenza e valore qualitativo.
L’ultimo “The Blue Hour” è un concept album (più o meno, non si capisce bene) che si muove sulla falsariga dei precedenti “Bloodsports” e “Night Thoughts”, anche se declina la formula in maniera più riflessiva e magniloquente. Una sorta di rock opera dai toni solenni che in certi punti funziona e in certi no, mantenendosi lo stesso su livelli più che dignitosi.
In apertura, ed è una sorpresa bellissima per il sottoscritto, visto che l’ho scoperto solo pochi giorni prima, c’è Gwenno Saunders: la musicista gallese, terminata l’avventura con le Pipettes, ha lanciato quattro anni fa una promettente carriera solista, utilizzando come monicker il suo nome di battesimo e scegliendo di cantare in cornico, lingua parlata da poco più di 500 persone e che lei avrebbe imparato da sua nonna, originaria appunto dalla Cornovaglia. Sul palco sono in cinque, formazione da rock band tradizionale, che dona al suo Folk Pop dal leggero vestito elettronico una carica superiore alla dimensione in un studio, con chitarra più presente e ritmiche più serrate. Lei canta bene ed ha una straordinaria capacità comunicativa, esegue il suo repertorio come se ci fosse totalmente immersa dentro e coinvolge il pubblico fino al punto da cercare di insegnare il ritornello di “EusKeus?” (e il cornico non è proprio una lingua semplicissima). La mezz’ora a sua disposizione scorre via liscia e piacevole, anche per chi non la conosceva (e credo fossero la maggior parte). La dimostrazione lampante che la musica è un linguaggio universale e che quando la sua bellezza arriva al cuore, le barriere linguistiche sono destinate a cadere.
Gli Suede arrivano alle 21.30 precise e danno il via allo show con l’accoppiata “As One”/“Wastelands”, che apre anche il nuovo album. Volumi non altissimi ma suoni nitidi, luci basse e una coltre di fumo a creare un’atmosfera evocativa. Poi c’è “Outsiders”, a fornire un ideale ponte col disco precedente e a far capire, con Anderson che chiama il coro del pubblico sul ritornello, che il frontman questa sera pare essere piuttosto in difficoltà. “Cold Hands”, uno dei pochi pezzi tirati di “The Blue Hour”, scalda un po’ l’atmosfera che però si incendia davvero solo con il primo classico della serata, “The Drowners”. Qui Brett scende in mezzo al pubblico, le prime file impazziscono e il Fabrique, per la prima volta dall’inizio, si incendia davvero.
Questa, fa un po’ brutto dirlo, è la chiave per capire il concerto: c’è una band che ha appena pubblicato un disco e che è lì per promuoverlo, tanto che ne suona una buona metà. C’è una larghissima fetta del pubblico che è reduce dagli anni ’90, che ha scoperto la band coi primi due lavori, che l’ha probabilmente mollata dopo “Coming Up” e che vuole sentire quei pezzi, solo quelli. È un revival, un ridirsi quanto erano belli quei tempi, quanto si era più felici di adesso. Tutto il resto, o non conta o conta poco. È impressionante notare la differenza: boati, cori e battimani per tutti i vecchi classici, tiepido entusiasmo per le canzoni nuove o anche solo per quelle più recenti.
Verso la fine, dopo un’incendiaria “Animal Nitrate”, Brett rimane qualche istante da solo sul palco per prendersi gli applausi dei presenti, poi imbraccia una chitarra acustica, si siede a bordo stage e senza l’ausilio dei microfoni esegue un’interessante versione di “Oceans”. Nessun cenno di riconoscimento da parte di nessuno. Avrebbe potuto anche essere una cover di qualche gruppo sconosciuto, a giudicare da come è stata accolta. Ok, va bene che proviene da un disco non proprio eccelso come “A New Morning”, ma davvero pareva che il singer si fosse cimentato in un mero esercizio di stile, e non che avesse comunque attinto dal repertorio della sua band.
Gruppi come il loro pagheranno sempre questo scotto, immagino. E del resto non è neppure un elemento che va a rovinare il concerto. La band suona sempre molto bene, è ormai ultra rodata, Richard Oakes è un gran chitarrista, Mat Osman e Simon Gilbert una certezza, Neil Codling riempie benissimo il suono, tra tastiere, chitarra e cori.
Dal canto suo, Brett è sempre il solito frontman navigato, una sorta di sintesi ideale di Mick Jagger e David Bowie, un carisma innato e una passione per la propria arte che sopperiscono in pieno alle ormai fisiologiche imperfezioni vocali (nonostante tutto, porterà a casa una performance pienamente sufficiente).
Rispetto a quando li vidi due anni fa, la potenza è forse un po’ venuta meno e i tanti brani nuovi, nonostante siano stati scelti i migliori, spezzano un po’ il ritmo ma nel complesso fanno un gran bello show, come è nella loro tradizione.
È evidente che le varie “We Are the Pigs”, “Heroine”, “He’s Dead”, “So Young” (fa un po’ effetto sentirla cantare ora ma del resto il tempo che passa è questa roba qui), “Metal Mickey”, siano gli highlights della serata; del resto, senza nulla togliere ad un brano bellissimo come “It Starts and Ends With You”, è indubbio che gli Suede passeranno alla storia solo ed esclusivamente per i primi due dischi.
“The Blue Hour” però dal vivo funziona. Magari avrei evitato l’intermezzo “Chalk Road”, che avrebbe avuto senso solo all’interno di un’esecuzione integrale, ma gli episodi scelti hanno reso alla grande ed è assolutamente meritevole da parte loro averci voluto puntare.
Lunga ed emozionante infatti è in particolare “Flytipping”, che chiude il set regolare in maniera forse più raccolta del solito, ma senza dubbio con grande suggestione. Ed è anche inusuale che lo show termini con “Life is Golden”, probabilmente il brano migliore del disco, con Brett che chiede al pubblico di cantare con lui il ritornello, nel caso la conoscesse (purtroppo non accade ma era difficile aspettarsi diversamente). Si va via dopo un’ora e mezza abbondante, privi di un brano imprescindibile come “New Generation” ma con la certezza di aver ancora una volta goduto dell’ottima performance di una band che continua a dare tutto al proprio pubblico, nonostante i grandi numeri non siano più dalla loro.
In questi giorni ho letto un’intervista di Vasco Brondi in cui spiegava come sia bello scoprire che la propria musica è ancora considerata, anche se non ha più la spinta dell’hype del momento. “Mi sembra di essermi ritagliato il mio spazio e non è scontato che questo avvenga” ha detto poi. Ecco, gli Suede hanno fatto un percorso simile ed ora sono in questa situazione. Che continuino a realizzare dischi ascoltati da pochi intimi non è poi un grande problema, nella misura in cui quei dischi, pur non aspirando a cambiare il mondo, sono belli come gli ultimi che sono usciti.
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