Articolo e immagini sonore di Stefania D’Egidio
Sabato 26 i Vanarin sono passati al Circolo Ohibò di Milano per l’ultima tappa del loto tour; attorno a loro si sono create grandi aspettative, dato l’esordio scoppiettante e l’importante collaborazione con una vecchia conoscenza del rock italiano, Roberta Sammarelli dei Verdena, che dopo averli ascoltati ne è diventata la manager.
Serata aperta dai bolognesi Baseball Gregg, formazione a tre (basso, batteria e chitarra), piacevolissima sorpresa per me che non li avevo mai sentiti, pur essendo attivi dal 2013 e con diversi album nel curriculum. Propongono un garage surf che ricorda molto le melodie oltreoceano degli anni ’60, che si sposano alla perfezione con la camicia hawaiana di Luca, il cantante; una scaletta fitta fitta per essere il gruppo spalla, un brano più spassoso dell’altro, dalle armonie allegre e riff di chitarra ricchi di effetti, con richiami alla band degli Shadow, quelli di Apache, per intenderci. Il pubblico dell’Ohibò, pieno per l’occasione, risponde con caldi applausi e se li meritano proprio tutti.


Il tempo di portarsi via gli strumenti ci separa dalla seconda parte dello show; il palco stasera abbonda di chitarre, bassi, sintetizzatori e tastiere, lasciando presagire quanto succederà di lì a poco. I Vanarin infatti si confermano un gruppo camaleontico, difficile affibbiare loro un’etichetta, poiché passano da un genere all’altro con molta facilità: ad eccezione di Marco Brena, nascosto dietro la sua batteria, tutti gli altri membri sono polistrumentisti, capaci di scambiarsi chitarra, basso e sintetizzatori con una certa nonchalance.
Il concerto inizia con il brano Holding, estratto dall’album di esordio Overnight, uscito lo scorso marzo per l’etichetta Woodworm Label, il cui video sta spopolando sui social nelle ultime settimane con il suo mix di colori che riflette un pò la molteplicità delle influenze stilistiche della band. Se proprio dovessi scegliere un gruppo a cui paragonarli mi verrebbe spontaneo il nome di quei Prefab Sprout che tanto mi avevano entusiasmato nella seconda metà degli anni ’80. La scelta di cantare in inglese, naturale viste le origini di David Paysden, il cantante, risulta vincente, perché dà un tocco di internazionalità al sound della band; la voce di David è limpida e potente, ma anche Massimo Mantovani, basso e seconda voce, non delude quando prende il microfono per un paio di brani.
Una nota di tristezza quando, verso la fine del concerto, viene annunciato che sarà l’ultima volta con i Vanarin per Giuseppe Chiara, chitarra e tastiere, leggo l’emozione nei suoi occhi, spero ci ripensi…
In questa fredda serata di gennaio l’Ohibò ci regala due ore all’insegna della sperimentazione e della contaminazione: ce n’è davvero per tutti i gusti, dal beat al funky, dal pop rock al metal, applausi strameritati per entrambe le band.




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