Articolo di Luca Franceschini

L’ho scritto recentemente da un’altra parte e non ho voglia di ripetermi: non mi è mai piaciuto l’atteggiamento di chi “Non guardo Sanremo perché tanto fa tutto cagare” o “Quella non è mica vera musica!”. In sintesi: stabilire che cosa sia “vera musica”, ammesso che si possa, richiede competenze troppo elevate che sicuramente non sono in mio possesso. Il prodotto televisivo è di bassissimo livello, questo credo che si possa affermare senza troppi problemi ma le canzoni (che non sono mai il piatto principale del programma ma che poi, in fin dei conti, sono quelle che interessano davvero) non è detto, generalizzare non è mai una bella idea.
Tutt’al più che è già qualche edizione che il direttore artistico di turno cerca di svecchiare un po’ la lista dei concorrenti, inserendo nomi che siano più vicini alle giovani generazioni, artisti dall’hype indiscusso o dai recenti successi, in modo tale che il Festival possa essere preso in considerazione anche da chi è genuinamente interessato alla musica.

Daniele Silvestri e Rancore

Alla fine nulla di rivoluzionario, comunque. Siamo pur sempre in Italia, nel paese del “bel canto” per eccellenza, laddove un “che voce pazzesca!” diventa il non plus ultra del giudizio sulla qualità; siamo il paese dove una come Giorgia (che tra parentesi si è esibita in qualità di “super ospite” nella serata inaugurale) ha potuto avere la carriera che ha avuto senza aver mai inciso un brano che fosse anche solo lontanamente significativo (“Eh ma come canta bene!”); e che dire di Nek (al suo ritorno in gara dopo un bel po’ di anni di assenza) che ha tra i suoi video più visualizzati una cover dei Police (mamma mia, che voce che ha questo!)? O ancora, Renga (no basta, qui è meglio fermarsi)?
Quindi, in un panorama del genere, non stupiamoci se alla fine saranno Il Volo, il summenzionato ex Timoria (ma lui se li ricorderà ancora?) o alla peggio un Simone Cristicchi qualsiasi (che al netto della banalità, ha comunque confezionato un brano più elegante e profondo di quello di molti suoi sfidanti) a portarsi a casa il trofeo.
Come a dire, allarghi il cast per allargare il pubblico ma alla fine lo spettatore medio sogna ancora la reunion di Albano e Romina. Pazienza, questo è e lo dobbiamo accettare.

Simone Cristicchi

Di conseguenza, la prima serata ha confermato quello che già ci si poteva aspettare: intrattenimento banale e di mestiere (un tempo Bisio mi faceva un altro effetto, mi sono perso qualcosa?), dialoghi di una pochezza impressionante, il solito Baglioni che, per carità, ha scritto cose splendide ma che così, in questa veste, nel 2019, appare particolarmente fuori posto; e ancora, ospiti che definire ininfluenti è fare un complimento (Bocelli è un altro prodotto puramente italico, di Giorgia ho già detto, per fortuna durante la sua esibizione mi si è impallata la connessione), ammiccamenti stucchevoli e alquanto disturbanti all’ultima Next Big Thing del politically correct.
Insomma, una roba per cui arrivare alla fine pareva praticamente impossibile (e infatti non ci sono arrivato). Però, tra un dialogo e l’altro, c’erano le canzoni. E le canzoni, perdonatemi, con Sanremo c’entrano poco. Nel senso che una canzone alla fine la giudichi in sé o se non altro la metti in relazione al percorso dell’artista. Che sia una canzone “da Sanremo” ormai è totalmente irrilevante, dopo tutto quel che conta, per la giuria che seleziona, è il nome di chi la propone, non certo la qualità del prodotto.

The Zen Circus

Allora concentriamoci su queste. Che non vuol dire, nel mio caso, parlare di tutte e 24, ma piuttosto spendere due parole su quei nomi che, per un motivo o per l’altro, mi hanno spinto ad accendere il televisore. Un po’ perché li conoscevo e li apprezzavo già, un po’ perché le acque dove nuotano sono più o meno le stesse di alcuni degli artisti che occupano i miei ascolti.
Partiamo dal dire che non ho incontrato nulla di eclatante. Ovviamente scrivo queste cose dopo ripetuti ascolti delle versioni in studio perché si sa, giudicare in diretta è piuttosto difficile. Di gente brava ce n’era, su alcuni di loro avevo anche aspettative piuttosto alte. Qualcuno mi ha convinto, altri meno ma, in generale, non ho sentito nulla che mi abbia fatto gridare al miracolo. Colpa probabilmente di una eccessiva preoccupazione di andare sul sicuro per cui, a fronte di una scrittura decisamente prevedibile da parte di più o meno tutti i Big in gara (i nomi classici tipo Renga, Nek, Il Volo, la Berté, Paola Turci, Cristicchi hanno portato cose fin troppo di mestiere), ciascun artista ha più o meno mostrato il lato più classico e rassicurante del proprio repertorio: tranne poche eccezioni, è stato tutto troppo prevedibile ma forse era scontato che andasse così.

Motta

Detto questo, partiamo da chi mi ha convinto di più. Nella mia personale classifica entra sicuramente Daniele Silvestri con la sua “Argento vivo”. Lui non mi è mai piaciuto troppo, pur non avendo nulla da eccepire sulla sua effettiva caratura. A questo giro, tuttavia, presenta un brano che si muove nei territori del Rap, con una base elegante e drammatica dove l’orchestra non svolge il ruolo di semplice comprimaria. C’è Manuel Agnelli che urla nel break centrale (solo nella versione in studio) e c’è un importante featuring di Rancore, che entra nella seconda parte e fa capire perché lo possiamo considerare il miglior rapper italiano (e anche sul palco dell’Ariston ha dato la biada a molti). Il testo è un altro punto di merito, sorta di monologo di un teenager che né in famiglia né a scuola trova ciò di cui ha bisogno, finendo per rimanere intrappolato nei meandri della Rete. Un argomento attuale e scottante, affrontato in maniera scoperta e per nulla qualunquista.
A ruota, non avrei mai voluto scriverlo, ci metto gli Zen Circus. La band di Andrea Appino non ha mai incontrato i miei favori ma non posso andare contro me stesso: “L’amore è una dittatura” è un ottimo brano, costruito su pochi elementi melodici che vengono costantemente ripetuti in un crescendo di grande drammaticità, ben valorizzato dall’incedere degli archi. Il testo è forse il migliore ascoltato in questa edizione, successione di immagini potenti che mischiano dimensione politica ed esistenziale. Probabilmente inadatta a questo palco ma è una gran cosa che ci sia.

Mahmood

Ghemon era senza dubbio quello che aspettavo di più, per l’amore che porto alla sua musica e al suo talento come esecutore ed autore. “Rose viola” è un gran bel pezzo, una ballata piena di vibrazioni Black come ci ha ben abituato. Semmai, l’unico appunto che potremmo fare è che a uno come lui certi brani vengono fuori in cinque minuti ma per il resto è innegabile che stia una spanna sopra a tutti o quasi.
Altra mia personale scommessa era Motta: “Vivere o morire” non è stato all’altezza del disco d’esordio ma stiamo comunque parlando di uno di quelli che incarna al meglio quanto di buono ci sia in questo fantomatico “Indie italiano”. “Dov’è l’Italia” è purtroppo il brano più debole da lui scritto finora: la strofa è in linea con le cose dell’ultimo disco, il ritornello spinge molto ed è quasi Neo Folk, si sentono flebili echi dei primissimi Mumford & Sons. Buono, per carità ma non gli perdono una certa vena qualunquista del testo ed il fatto che, gira e rigira, non sembra riuscire a discostarsi dal suo marchio di fabbrica.
Non conoscevo Mahmood ma il suo brano mi ha davvero impressionato: la scuola è quella di Ghali e la produzione di Charlie Charles non fa altro che accentuare la somiglianza; c’è comunque molto più Hip Pop che Trap, il ritmo è irresistibile e anche il testo, pur con un po’ di mestiere, non dice scemenze. Recupererò il disco in uscita, credo che ne varrà la pena.

Shade e Federica Carta

Tra le cose positive inserisco anche “Senza farlo apposta”, presentato dalla coppia Shade/Federica Carta: molto adolescenziale, molto telefonato, molto It Pop eppure sincero, con un ritornello in stile Michielin che ne è ovviamente il centro propulsivo.
Passiamo alle delusioni: la più grande è senza dubbio Ultimo. Non che la proposta di Niccolò Morriconi mi avesse mai colpito anche in precedenza ma essendo uno dei nomi sulla breccia tra le nuove generazioni, ero comunque curioso di sentirlo. “I tuoi particolari” è sostanzialmente una ballata melensa ed insignificante, sorta di Gazzelle in salsa sanremese, un ibrido incolore che alla fine scontenterà tutti tranne, ovviamente, la sua fan base.
Pessimi anche gli Ex-Otago: su di loro sono sempre stato prevenuto ma la pochezza del loro brano, una ballad ammiccante e telefonatissima dove hanno inserito tutti i luoghi comuni del loro songwriting, non dovrebbe lasciare spazio a dubbi. “Solo una canzone”, l’hanno intitolata emblematicamente: in realtà è molto meno di questo.

BoomDaBash

Chiudiamo con quello che per me ha rappresentato il punto più basso del rapporto aspettative/risultato finale: Achille Lauro non è esattamente nelle mie corde ma se non altro l’ultimo “Pour l’amour” aveva fatto intravedere una vena espressiva da non sottovalutare. Proprio per questo, “Rolls Royce” appare come un autentico buco nell’acqua. La presenza nei credits di nomi come Boss Doms e Frenetik & Orang3 lasciava presagire chissà cosa ma a conti fatti si tratta di un’inattesa virata verso un rock lineare e pieno di cliché, rivestito di una produzione moderna che serve però solo a mascherarne la povertà di sostanza. Aggiungiamoci un testo ed un’attitudine generale che sembra voler scimmiottare il Vasco Rossi di “Vita spericolata” ed otterremo un quadro che davvero non si spiega. Chissà che cosa gli è saltato in testa.
Finita qui? No perché nella lista dei nomi che non ti aspetti, ecco arrivare un paio di sorprese: la prima è costituita dai Boomdabash, la cui “Per un milione”, prevedibile e confezionata ad arte per far ballare a ritmo di Reggae, mi è comunque arrivata in modo positivo per il modo in cui il groove si sposa con melodie vocali davvero efficaci.

Nino D’Angelo e Livio Cori

La seconda (e qui è la prova che le reazioni di fronte alla musica siano molto poco razionali) è la coppia Nino d’Angelo/Livio Cori. Davvero, io con le sonorità napoletane ho dei problemi fortissimi, non ce l’ho mai fatta ad arrivare oltre il decimo secondo di qualunque canzone provenga da quella zona. Ciononostante, il frutto della collaborazione tra una vecchia icona come D’Angelo e quello che in molti sostengono essere Liberato (sono chiacchiere da bar ma morivo dalla voglia di scriverlo anch’io) mi è parso particolarmente riuscito. Forse più frutto del secondo piuttosto che del primo (apparso oltretutto fuori fuoco nel corso dell’esibizione), “Un’altra luce è un bel tentativo di coniugare la tradizione partenopea con sonorità tra l’Urban e l’Electro Pop. Come dite? L’ha già fatto Liberato? Sì appunto. Ma non credo che qui si cerchi l’originalità ad ogni costo, no?
Il bilancio finale non è dunque confortante ma non credo rappresenti un problema: nessuno ha mai detto che dall’Ariston debba passare per forza di cose la musica del futuro. È una manifestazione come tante, che gode ancora di questa assurda popolarità solo perché siamo un paese culturalmente arretrato e poco propenso ad allargare lo sguardo. Detto questo, ignorarla con sprezzo è a mio parere ancora peggio che volerla esaltare a tutti i costi. Per quanto mi riguarda, l’unico Solone che prendo in considerazione è un legislatore ateniese del VI secolo avanti Cristo…

Fotografie di Enrico Di Giacomo – Stampalibera.it