L I V E R E P O R T
Articolo di Luca Franceschini e immagini sonore di Andrea Furlan
Giardini di Mirò e Massimo Volume hanno più cose in comune di quanto non sembrerebbe ad un primo sguardo. A partire da un dna musicale che privilegia la creazione di paesaggi sonori e che lavora sui frammenti e sulle suggestioni, a dispetto della normale forma canzone; passando poi per un utilizzo poco canonico della voce, sia che la si metta al servizio del linguaggio del Post Rock, convenzionalmente strumentale, sia che, come accade per i secondi, la si impieghi in narrazioni più o meno declamate che rappresentano un elemento stilistico del tutto nuovo nel nostro universo sonoro. Aggiungiamo che entrambe le band provengono dall’Emilia Romagna (dal reggiano i primi, da Bologna i secondi), che da pochissimo condividono la stessa etichetta, la 42Records, e capiremo che la decisione di fare un tour insieme è apparsa meno sorprendente di quanto si potesse pensare.
C’è però un dettaglio in più e direi che conta come valore aggiunto: Giardini di Mirò e Massimo Volume rappresentano una bella fetta dell’eccellenza italiana della nostra musica, una delle ragioni per cui non dovremmo avere nessun tipo di timore reverenziale verso la tanto blasonata musica anglosassone, tedesca o svedese che sia. Vero che sono cose che accadevano nella seconda metà degli anni ’90, nei primi Duemila, così come è innegabile che oggi, un po’ di effetto nostalgia lo si respiri inevitabilmente, considerando l’età media del pubblico e il fatto che, pur godendo di ottima salute ed essendo forse, addirittura, nel loro periodo migliore di sempre, nessuno di questi act si trova più al centro dell’attenzione mediatica. Sempre che ci sia mai stato, in realtà. Perché a volerla guardare bene, anche nel periodo in cui entrambi i gruppi raccoglievano lodi sperticate da parte di pubblico e addetti ai lavori, rimanevano ugualmente un fenomeno di nicchia. In qualunque modo la si voglia vedere, però, questo tour congiunto è una grande cosa, innanzitutto per la qualità altissima della proposta. Che sia poi ancora roba sulla cresta dell’onda è al momento sinceramente superfluo.
Fa caldo, anzi caldissimo. La location del Castello Sforzesco è bellissima, di quelle che d’estate andrebbero sfruttate senza dubbio di più ma l’afa micidiale di quello che speriamo rimanga un picco di temperatura isolata nel corso di quest’estate appena cominciata, rovina molto. A questo giro non ci sono sedie, si sta tutti ammassati sotto il palco e anche se non c’è propriamente il pienone, la vicinanza dei corpi renderà davvero difficoltoso seguire il concerto.
Partono i Giardini di Mirò, che rimarranno sul palco per 75 minuti abbondanti. Il loro è un set ancora una volta impeccabile ed elegantissimo, che ricalca a grandi linee quello visto a gennaio, in una delle primissime date di “Different Times”. Proprio con la title track del nuovo lavoro si apre il concerto, gioiello Post Rock da sette minuti dove sono concentrate tutte le principali qualità di un gruppo a dir poco strepitoso, mai sotto la soglia dell’eccellenza ed autore dell’ennesimo disco pazzesco, dopo diversi anni di silenzio.
Dalla classe dei due chitarristi Jukka Reverberi e Corrado Nuccini, passando per gli innesti di fiati e archi dei due polistrumentisti Mirko Venturelli ed Emanuele Reverberi, con Luca Di Mira indispensabile nella componente elettronica e Lorenzo Cattalani, batterista non appariscente ma sensibilissimo, il concerto dei nostri è, perdonatemi la banalità della metafora, un viaggio sonico meraviglioso e affascinante, dove l’elemento cameristico si sposa con le ritmiche serrate e le sporadiche esplosioni rumoristiche, a dipingere un paesaggio continuamente cangiante e ad alta suggestione. Il resto, inevitabilmente, lo fa l’altissima qualità del repertorio, con pochi pezzi nuovi (comunque splendida “Landfall”) ed una selezione di cose passate nella quale hanno spiccato soprattutto “Pet Life Saver”, intensa ed ipnotica, ed una particolarmente cupa versione di “Rome”; ma anche “Broken By”, interpretata in maniera affascinante da Jukka, è stata notevole.
Nel finale arriva pure Emidio Clementi, con il quale i sei eseguono “Malmoe”, la traccia del 2002 che avevano realizzato insieme per l’ep “The Soft Touch” e che dal vivo costituisce un’autentica rarità, vero valore aggiunto di questo concerto. Peccato che non sia salita sul palco anche Adele Nigro, la cui presenza tra il pubblico ci aveva fatto illudere nella possibilità di sentirla su “Don’t Lie”. Meglio comunque non sottilizzare troppo. Anche perché la chiusura, con il magistrale manifesto di “A New Start”, è talmente bella che quasi non ci accorgiamo che fa caldo. Come ha detto saggiamente un amico al termine dell’esibizione, “Se questi fossero inglesi, i Mogwai non se li cagherebbe nessuno.”. Probabilmente è esagerato (si tratta comunque di due band molto diverse) ma è indubbio che i Giardini di Mirò andrebbero considerati molto ma molto di più, al posto di definirli come spesso si fa “un grande gruppo di vent’anni fa”.
Cambio palco piuttosto lungo, frutto credo di alcuni inconvenienti tecnici, che costringerà forse i Massimo Volume a tagliare qualche brano dal proprio set. Lo show dei bolognesi si apre con le note di “Dymaxion Song” e anche qui niente da dire: impatto travolgente, atmosfera sontuosa e glaciale allo stesso tempo, con una resa sonora complessivamente buona, nonostante il basso di Mimì fosse fin troppo alto. Eviterei di riscrivere elementi che ho avuto modo di sviscerare abbondantemente qualche mese fa, in occasione della prima data milanese del tour ma lo ribadisco in sintesi: “Il nuotatore”, arrivato dopo un intervallo di sei anni, è un disco meraviglioso e dal vivo la band è sempre in splendida forma, grazie a componenti che più passa il tempo, più migliorano (ragazzi, Egle Sommacal è uno dei chitarristi migliori che ci sia in Italia, come è possibile che non venga detto e ripetuto ogni ora? Stessa cosa per Vittoria Burattini: non è facile trovare batteristi al suo livello…) e a nuovi innesti che non fanno rimpiangere i recenti dolorosi addii (Sara Ardizzoni, titolare del progetto Dagger Moth e già a fianco di Cesare Basile, si è perfettamente inserita all’interno del collettivo e la sua prova appare addirittura migliore rispetto all’ultima volta).
Ne scaturisce un concerto eccellente, l’ennesimo della loro carriera, per una band che ho visto tante volte e che sempre, immancabilmente, riesce a sorprendere e a stupire come se fosse la prima. Peccato solo per la setlist un po’ ridotta, che sacrifica due pezzi del nuovo album (“Mia madre e la morte del gen. José Sanjurjo” e “Vedremo domani”) che comunque rimane grande protagonista, coi suoi brani che fungono da pietra angolare dello show e che in questa sede escono nuovamente valorizzati. Ci sono poi i soliti estratti dal repertorio più recente, sempre di altissima qualità: “Fausto” e “Le nostre ore contate” sono ormai classici a tutti gli effetti, con soprattutto quest’ultima che ha fissato in modo indelebile quello che il gruppo era nel 2010, anno del suo ritorno sulle scene, ma che in realtà funziona bene anche per esprimere quelle sensazioni particolari di chi è arrivato più o meno a metà della propria esistenza.
Nei bis, dopo “La cena”, altro episodio iconico degli ultimi anni, è arrivata una strepitosa “Alessandro”, ripescata direttamente dall’esordio “Stanze” e, a memoria, non suonata dal vivo da più di dieci anni. Si termina con “Qualcosa sulla vita” e “Fuoco fatuo”, con la presenza di Emanuele Reverberi al violino e Corrado Nuccini alla chitarra, in una sorta di comunione realizzata tra due band che sono amiche e perfettamente in sintonia tra loro (tra l’altro Corrado accompagna da anni Mimì nei suoi reading). Finisce così, con la decisione, rivoluzionaria ed estremamente coraggiosa, di non suonare “Il primo Dio”, che mostra come una band del genere abbia statura e repertorio a sufficienza per poter fare a meno del proprio brano più conosciuto.
Una bellissima serata, per ricordarci ancora una volta come, a dispetto di quell’epoca irripetibile che fu il rock italiano della seconda metà dei ’90, di certe band abbiamo ancora bisogno, oggi più che mai.
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