I N T E R V I S T A
Articolo di Joshin E. Galani
È uscita l’opera prima di Nicola Lotto – Si comincia così – che da diversi anni si muove artisticamente in progetti poetici e musicali: negli spettacoli teatrali è protagonista di esibizioni che uniscono canzoni e letture, talvolta di veri e propri reading. Questo suo imprinting lo ritroviamo anche nell’EP che colloco sicuramente tra le uscite illuminate di quest’anno. Dovevo preparare delle domande 🙂 Ecco l’intervista che ne è emersa, buona lettura!
Ciao Nicola complimenti per la tua opera prima musicale, un progetto molto coinvolgente! A settembre è uscito il tuo primo singolo, Una Luce; partenza in salita, una canzone intensa e la partecipazione di Stefano Edda Rampoldi, che ha dato il suo tocco “parasognante” al brano. Ci racconti il dietro le quinte di questa collaborazione?
Ciao, sono innanzitutto felice ti piaccia il disco e ti ringrazio. Dietro la collaborazione c’è la mia grande stima per Edda come prima cosa. Il lavoro persuasivo di Marco Olivotto ha in seguito permesso l’incontro e l’incrocio. Volevo una voce molto diversa dalla mia che creasse un dialogo quasi malato e che rendesse il senso dell’onirico. Credo che ci siamo riusciti. Ho visto che il termine ‘parasogno’ suscita molta curiosità, è un po’ il simbolo misterioso della canzone.
Come mai hai deciso di inserire anche la sola traccia musicale di questo brano?
Perché dove non arrivano le parole tenta di arrivare la musica e viceversa. Ascoltando le varie versioni, tra cui quella senza voci, sono stato molto colpito dalla forza che mi sembrava sprigionare. L’ho percepita da subito come una canzone altra. Lasciare spazio alla musica permette di fare respirare, di sedimentare il senso, permette di aprire orizzonti, è molto importante. È uno degli insegnamenti del mio amico Varner. Non è un caso che il disco finisca con la traccia di sola musica, come dire dopo tante parole si promuove il respiro.
Il titolo del tuo Ep Si comincia così è una frase tratta dal brano Una luce. Il disco, uscito il 20 novembre, si compone di 6 brani. La mia impressione è di sentire nel cantato radicato agli aspetti tipici del cantautorato colto (Giurato, Benvegnù, Casale) e musicalmente slanciati verso l’alto, in una esplosione moderna di ballade, folk a volte con riverberi acid. Ci racconti di come hai voluto sviluppare questo impatto sonoro e chi ha collaborato e suonato con te al disco?
I nomi che citi mi rendono felice, sono miei riferimenti da sempre. Esserne accostato è motivo d’orgoglio per me. Le canzoni di questo disco nascono nella forma chitarra acustica e voce, rielaborate e riarrangiate con il violoncello di Riccardo Bortolaso. Questo strumento dà una ‘pasta’ greve e scura e morbida allo stesso tempo. Strumento bellissimo e molto adatto al mio modo di cantare, alla mia timbrica. Questa è stata la base delle canzoni. Si sono poi aggiunti riferimenti di suono più moderni, attuali, soprattutto nelle ritmiche e nelle batterie.
Si sono aggiunti i pensieri e gli stili di Ugo Ruggiero e Andrea Liuzza, rispettivamente produttori artistici di metà disco a testa. È un lavoro corale in cui abbiamo tentato di fare del cantautorato che non fosse classico pur suonando con strumenti classici, oltre il cello c’è infatti anche il violino di Sabrina Contiero.
Hai nella voce un tono basso dal forte impeto. Alcune canzoni si snodano anche in aspetti teatrali, sono raccontate con l’enfasi poetica del narratore, si perdono i confini delle due arti a favore della contaminazione. Sembra proprio nella tua espressione naturale il fondersi di teatro – poesia e canzone!
Lo spero. È quello che cerco. La parola poetica, densa di simboli, è naturalmente musicabile, per come la intendo io. Lascerei da parte il teatro, nel senso del teatro di narrazione, che qui non c’è. Se con teatro intendiamo invece dare spazio alla voce di dentro, tirarla fuori e arricchirla in suoni allora ok. C’è la ricerca di una teatralità diffusa e da diffondere ma è più uno spazio interiore che un copione.
Hai omaggiato Arthur Rimbaud, l’intro di “Nelle Vene” è tratto da “Una stagione all’inferno”, che hai presentato anche a teatro. Cosa ti lega al grande poeta?
È uno degli autori che mi ha emozionato e coinvolto dalla post adolescenza in poi. Credo la poesia sia un lampo che illumina il buio per una frazione di secondo. Ma pur sempre nel buio si resta. Rimbaud per me è questo. E Una stagione all’inferno non è nemmeno poesia in realtà, è prosa che vive di una intrinseca e indiscutibile poeticità. A significare che la poesia non è fatta esclusivamente di versi.
Un amore forte quello per Rimbaud, che ritroviamo ne La felicità. Secondo te la felicità è casuale o può essere un “impegno” inteso come uno spazio di sana attitudine, direzione, soprattutto nel periodo storico che stiamo vivendo?
Secondo me è una tensione quindi una direzione. Allo stesso tempo la immagino come una cosa leggera. E tutte le cose leggere arrivano solo quando sei in grado di mollare la presa su certi tuoi lavori personali. È un fatto leggero ma non superficiale, una leggerezza che sta in profondità. Prima però devi esserci andato in profondità, con tutto quello che comporta.
Incombe lascia ampi margini di interpretazione: “Viene qui dall’infinito c’è già stato ed è partito tempo fa” a me questa frase apre tanti scenari legati alla lettura del destino e del fato. Di cosa parla?
Di una energia positiva che gravita da sempre sopra le nostre teste e non viene per distruggere. Qualcosa che porta all’ultimo verso della canzone: il dolore passerà, non c’è altra soluzione.
Come dire: per quanto noi si voglia continuare a stare e farci del male, arriverà il momento in cui abbandoneremo le nostre miserie e ci dedicheremo alla bellezza. È una speranza, una visione. Ma le cose iniziano ad esistere se tu inizi a immaginarle.
Che l’espressione delle tue canzoni sia molto curata lo si evince anche dal video Una Luce. C’è una bella fotografia e un aspetto simbolico dato da alcune carte dei tarocchi. Cosa significano? Come si colloca il loro simbolismo nel brano?
Il video è prodotto da Michele Bacelle, il merito della fotografia è tutto suo. I tarocchi promuovono un percorso di senso. Sono utilizzati per il loro valore allegorico, simbolico e la cosa che viene richiesta allo spettatore è di crearsi delle idee sopra le immagini, in questo caso sopra tre arcani maggiori. Il simbolismo è importante nel momento in cui la parola viene utilizzata per il suo valore poetico, direi polisemico ma non vorrei scatenare i linguisti. La parola non descrive, evoca. Promette immaginazioni, non spiega la realtà al massimo la interpreta. Non contiene il pensiero, non ne ha facoltà, al massimo prova a imitarlo, a tradurlo.
Ci parli dell’artwork della copertina?
È un murales che si trova a Napoli, la fotografia è di Gianluca Alfieri, poi rielaborata graficamente con lo sfondo rosso che ho scelto. L’immagine mi ha colpito per la fierezza dell’espressione al contempo dolorosa. Non so nemmeno se sia donna o uomo ma mi ispira un sentimento di resistenza.
In un momento particolare come questo parlare di tour è da equilibristi ottimisti! Sei riuscito comunque a presentare live il tuo disco, a Modena hai cantato con Edda. Che feed back hai avuto dai live, non solo come risposta al tuo ottimo debutto, ma anche come emozione globale legata al periodo?
I live stavano andando molto bene e nulla ci vieta di pensare che possa essere così anche nel futuro prossimo. Ci sono persone che si sono interessate alla mia musica in questo periodo, interessate in maniera seria, approfondendo, cercando di capire. Anche le tue domande mi fanno capire che hai ascoltato le canzoni in maniera intelligente. Non posso che tenere a cuore queste cose come piccoli o grandi segnali. Il rapporto tra live e periodo storico è abbastanza evidente, tutto quello che è trasmissione di energia era e sarà salvifico, vitale.
Grazie per le belle domande.
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