I N T E R V I S T A
Articolo di Luca Franceschini
Dai tempi de Il primo viaggio Mattia Delmoro ne ha fatta di strada. Se quel disco aveva incantato per un immaginario a tratti psichedelico, per una ricerca sonora costante, unita ad un approccio “battistiano” al songwriting, la svolta Pop, più propriamente Italo Disco, intrapresa con l’Ep Balìa ha sorpreso un po’ tutti ma ha anche evidenziato una certa continuità con un lavoro fatto di scrittura ad alto livello e arrangiamenti curati al dettaglio. Con il successivo singolo Complesso, che aveva come Lato B una riuscita cover di Le parlerò di te dei Righeira, l’artista friulano ormai stabilmente trapiantato a Milano, aveva intrapreso un discorso live che aveva mostrato come innanzitutto il suo fosse un progetto da assaporare nella dimensione del palco. Il Covid ha ovviamente interrotto tutto e chissà quando si riprenderà, ma nel frattempo la musica non si è fermata: Rendez-Vous, secondo disco e prima prova sulla lunga distanza di questa nuova declinazione sonora, conferma tutto quanto fatto di buono da Delmoro ed alza notevolmente l’asticella qualitativa. È un disco estivo ma non del tutto spensierato: come tante delle cose uscite in quest’ultimo periodo, è figlio del lockdown, dell’incertezza e dei disagi che la pandemia ha portato con sé, di un clima di sospensione che, nel momento in cui scriviamo, non sembra affatto prossimo alla fine.
È probabile che non sentiremo queste canzoni dal vivo ancora per un bel po’. Detto questo, il disco è fuori ed è un gran bel disco, vale la pena impararselo a memoria per quando potremo finalmente cantarlo a squarciagola. Nel frattempo abbiamo raggiunto Mattia al telefono per una piacevole chiacchierata, dove si è cercato di parlare il più possibile di presente e poco di futuro…
Ti ho visto a fine 2019 all’Ohibò, quando hai presentato l’ultimo singolo “Complesso”. Immagino che da allora tu ti sia messo a scrivere, visto che hai completato un disco. Quanto ha influito la situazione in cui ci troviamo, a definire le linee guida del tuo lavoro?
In realtà la scrittura fa parte di un ciclo continuo di lavoro: scrivere e pensare alla musica ancora prima di farla, per me è sempre fonte di vita. Il processo creativo si mescola con tutto quell’aspetto più tecnico, relativo alla produzione, che poi andiamo a ridefinire in studio con Matteo Cantaluppi. Scrivere quindi non significa per me solo prendere la chitarra o il pianoforte e cantarci sopra, ma anche ragionare sul suono, su dove voglio arrivare. Buona parte di questo disco è stata scritta dal primo lockdown in poi, quindi di sicuro questo avvenimento importante ha influito, anche non so ancora come esattamente l’abbia fatto: c’è ancora molto da processare, molto da capire di questa nuova normalità, devo capire ancora come mi abbia impattato personalmente. Mi sono ad ogni modo trovato in questa situazione con una ricerca sonora che forse è stata ancora più spinta perché per me fare suoni, fare musica, è sempre un’occasione per andare altrove: sono anche un fan di tutta quella musica che rappresenta suggestioni che ti portano lontano, tipo l’elettronica, l’Ambient… essendo costretto dentro quattro mura, questi impulsi nell’ultimo periodo sono stati maggiori. Di conseguenza, tutto quello che caratterizza il mio suono sin da Balìa, la voglia di ballare, di avere una base ritmica che porta al movimento, unita a suggestioni sonore “esotiche”, diciamo così, credo si sia accentuata, anche per bisogno mio, nel senso che mentre lavoravo ai pezzi cercavo di non pensare troppo, è stato anche un tentativo per zittire certi pensieri. Detto questo, poi faccio musica anche per chi l’ascolta, non ho certo la naiveté di dire: “Faccio musica per me e basta”.
Trovo che con Rendez-Vous tu abbia fatto un passo avanti: sono tutti brani molto a fuoco, è una scrittura che non cala mai e anche a livello di produzione c’è stato un bel salto. È possibile dividere l’apporto tuo e quello di Matteo Cantaluppi, oppure avete fatto tutto assieme?
Ho lavorato dapprima con Davide Cairo, che si è occupato anche lui della produzione, i pezzi sono stati pensati innanzitutto con lui. In seguito Matteo ha raccolto le fila del discorso, facendo più che altro un lavoro di supervisionamento ed impacchettamento sonoro. Sei pezzi su dieci li ho prodotti con Davide, i restanti quattro con Matteo ma anche lì, arrivavamo con delle pre produzioni avanzate quindi lui ha operato sulla finalizzazione, imbastendo però anche alcune idee. Come ti dicevo prima, è tutto un unico processo, la scrittura spesso parte da altri elementi, che non sono per forza quelli base della chitarra e del pianoforte.

È un modo di lavorare in linea con i nostri tempi, dopotutto: oggigiorno il produttore in molti casi è quasi più importante dell’artista e la scrittura si fonde spesso col lavoro di produzione…
L’avanzamento tecnologico e l’accessibilità degli strumenti ormai permette a chiunque di pasticciare un po’ e poi, se ha voglia, di approfondire il discorso. La produzione sonora è un mondo complesso, ho profondo rispetto per chi lo fa da anni e lo fa con serietà, poi è vero che oggi si può produrre una canzone in modo molto semplice, senza tutto quel bagaglio di conoscenze di cui c’era bisogno un tempo e di cui c’è ancora bisogno, se lo si vuole fare a certi livelli. Diciamo che l’asticella si è un po’ abbassata, anche a favore delle idee che può avere un artista che non è un fonico o un ingegnere del suono. Poi c’è chi la considera una grande evoluzione e chi invece la vede come un passo indietro; effettivamente, se vai a sentire la qualità dei dischi, il suono si è molto livellato, tranne alcuni picchi di eccellenza, ovviamente. Non è per forza un male, comunque, sono il primo ad essere un fonico e a produrre, non sono certo un integralista!
Da Balìa in poi hai assunto una dimensione molto Pop, mantenendo però sempre una certa raffinatezza. Dipende dall’approccio alla scrittura oppure c’è anche un discorso a priori, nel decidere che uno possa andare veramente sul mainstream “pesante”, senza alcun ritegno (penso ad esempio ai Thegiornalisti quando hanno fatto Riccione)? È un’operazione studiata oppure dipende dalla sensibilità di ciascuno?
Credo di aver capito quello che intendi dire. Vedi, in Italia abbiamo un approccio da partigiani, su questo tema, un approccio da tifoserie, per cui ci sono gli ultrà della musica alternativa contro quelli che sostengono la musica commerciale e le due parole non stanno mai bene insieme. Molto spesso poi il discorso si riduce a questo, agli artisti che prima erano underground e hanno voluto, si dice, fare il passo… ecco, siamo ancora fermi a questi discorsi qui mentre invece io penso che la musica si divida sempre e comunque in bella o brutta, tutti gli altri aggettivi vengono dopo. Quindi, nei confronti del mio lavoro, immagino che quelli che si considerano dalla parte degli alternativi storceranno il naso, vedendolo come un tentativo di diventare commerciale, Pop, inteso in senso dispregiativo. Dal mio canto, cerco di inserire tutto quello che considero interessante all’interno di un calderone che poi ha il mio nome ed è il mio progetto. Mi piace molto quell’attitudine da spugna, per cui mastichi le tue influenze e cerchi di metterle in un prodotto che sia tuo. Le nicchie mi interessano come fonte di ispirazione ma non mi interessa fare una cosa che risponda solo ad un certo gruppo di persone, ad una certa comunità culturale esclusiva. Mi piace prendere le cose e proiettarle verso un mondo che possa essere di tutti. Questa per me è la definizione massima di Pop. Lo puoi fare in modo complesso, approfondito, oppure in modo irrispettoso, superficiale. Con tutti i miei limiti, io cerco di fare le cose il più possibile approfondite, perché se riesco a fare questo e al tempo stesso a scrivere una canzone che possa piacere a mia madre o al mio amico che non ha tutta questa conoscenza musicale, se riesco a fare questo, oltre a soddisfare i miei gusti, ho fatto anche qualcosa di più, mi posso ritenere contento.

Che poi è quello che è successo col pezzo di Colapesce e Dimartino a Sanremo, nonostante io creda che abbiano scritto di molto meglio in passato. Però penso che abbiano cercato di fare questa cosa qui che hai appena detto, no?
Leggo nella loro canzone una grande esperienza nel saper mettere insieme i colori della tavolozza. Conosco bene il loro lavoro, anche come autori di canzoni di altri artisti, lavoro anch’io con produttori con i quali loro hanno lavorato, capisco che è una canzone che dimostra una grande perizia di scrittura, maturata facendo gli autori e anche un po’ spogliandosi di quelli che sono i loro cliché. Proprio perché negli ultimi anni hanno ampliato i loro orizzonti, le loro ambizioni, sono riusciti ad arrivare ad una canzone che racchiudesse tutto quello che abbiamo detto finora. Si meritano tutto quello che stanno ricevendo, alla fine non sono neppure arrivati sul podio ma sono i veri vincitori del Festival. È il bello di questo mondo, che è comunque molto imprevedibile: puoi fare tutti i ragionamenti che vuoi (perché di certo non vai a Sanremo senza ragionamenti!) ma poi guarda cosa può succedere…
Tornando a Rendez-Vous, mi pare tu abbia fatto un disco molto estivo…
Sì, come ti dicevo all’inizio, c’è una radice nel mio lavoro che è quella di andare altrove ed è significativo che le canzoni estive mi piaccia scriverle d’inverno. È un gesto che già di per sé vuol dire andare oltre, aggiungici il fatto che eravamo chiusi dentro una stanza e puoi immaginare! Poi c’è chi reagisce per similitudine, per cui se è triste fa musica triste, se è allegro fa musica allegra; io di solito reagisco al contrario!
Ci sono però due brani che, in un disco da ballare, molto vivace e per certi versi spensierato, appaiono più riflessivi, non solo come testi ma anche come atmosfere musicali e che mi paiono centrali per il discorso che porti avanti. Ne L’importante, al di là della riflessione che fai, che è molto interessante, mi ha colpito che sia una canzone più “cantata” delle altre. Tu nel comunicato dici che la voce è lo strumento che un cantante ha per sentirsi vivo e, guarda caso, proprio qui tiri fuori la voce come mai avevi fatto prima…
È nata come un’operazione per ristabilire le priorità, sperando che in questo momento di riflessioni qualcuno ci si potesse ritrovare. Nel mio caso la voce è un espediente, è l’abc, è il mio strumento di lavoro, vuol dire tornare alle origini, a ciò che è basilare per la propria vita. Questo è un periodo in cui un po’ tutti siamo tornati al basic, abbiamo riscoperto le cose più semplici, che davamo per scontate; per me questo ha avuto a che fare con la mia voce, che ho visto proprio come uno strumento da cui ripartire, a cui aggrapparsi mentre tutto il resto sembrava vacillare.

Il cielo se ne frega invece è un pezzo abbastanza pesante, sembra che tu rinunci a trovare un senso escatologico a quello che è successo, dicendo che l’importante è affrontare bene la situazione a livello comunitario. E credo che da questo punto di vista la partita la stiamo perdendo. Poi non so se per te è cambiato qualcosa da quando l’hai scritto…
Sicuramente è cambiato qualcosa, poi non so bene che cosa arrivi alla fine della canzone, il testo l’ho lasciato così, con quel finale che sembra utopico, speranzoso e che in realtà riproduceva uno spirito che io sentivo nelle prime fasi del lockdown. Da un lato mi piaceva, l’ho sposato, dall’altro però sentivo che sarebbe stata una cosa temporanea. Speravo che tutto questo sarebbe servito ad unirci di più ma si è visto che non è così, credo che ormai il Covid divida, piuttosto che unire. Bisogna anche dire che avendo vissuto per anni fuori dall’Italia (in Inghilterra e in Danimarca), le reazioni alla situazione di emergenza mi hanno mostrato dei lineamenti culturali abbastanza chiari, che avevo già notato quando ci vivevo. Per dire, l’Inghilterra è un paese molto individualista e questa cosa, nel modo di stare di fronte alla pandemia, si è vista eccome. Nella canzone sviluppo anche un tema che potremmo chiamare delle “due Italie”: c’è effettivamente un’Italia in ginocchio ma anche un’Italia che non è stata poi così tanto in difficoltà. Cioè, un conto è chi ha fatto il lockdown con tutta la famiglia, in uno spazio ristretto, pochi soldi, ecc. Un altro è quello che pubblicava Stories e Post dove si evinceva tutto un altro status sociale. Ecco, anche questo entrare nelle case degli altri, durante quel periodo, ha mostrato ulteriormente le differenze, ha messo in chiaro che la vera crisi è appena iniziata…
Mi ha colpito molto anche Lanthimos, il primo singolo dell’album, dove giochi parecchio col rapporto tra musica, testo e titolo…
Lanthimos ha rappresentato una sorta di scherzo, una gag: il volere buttare dentro all’interno di una canzone così ariosa, estiva, il nome di un regista che è tutt’altro che estivo. Mi piaceva molto come accostamento, poi se lo si conosce, bene, altrimenti pazienza!
Durante il lockdown hai fatto una sorta di programma dove suonavi e cucinavi: mi è sembrata una cosa piuttosto originale, diversa dalla solita diretta Facebook dalla propria camera…
Ho vissuto il lockdown con Davide, che oltre il produttore con cui ho fatto il disco è il mio coinquilino qui a Milano. Siamo appassionati di cucina ma non è che siamo chissà che cuochi (ride NDA!) Avevamo l’esigenza di suonare e anche quella di dover mangiare e queste erano anche le uniche due cose che in quel periodo ci davano un po’ di gioia quindi le abbiamo semplicemente unite. Abbiamo cercato di fare un format che non ci stressasse troppo, per cui ci siamo dati mezz’ora, un lasso di tempo breve in cui abbiamo cercato di far venire fuori qualcosa di decente, sia a livello culinario, sia musicale. Direi che ci siamo divertiti!
Domanda infelice ma da un certo punto di vista inevitabile: stai già pensando ai live oppure non ci speri per niente?
Il punto è che preparare un live non è una cosa semplice, la stessa uscita del disco era stata inizialmente programmata cercando di tenere conto di quando si sarebbe potuto suonare ma poi abbiamo deciso di uscire lo stesso perché volevamo andare avanti, nonostante tutto. Sappiamo che si ripartirà però non sappiamo né quando né come, quindi è impossibile anche solo cominciare a pensarci. Sai, va bene essere resilienti, come suggerisce anche il Piano di sviluppo (ride NDA) che peraltro è anche una parola abusata! Noi possiamo essere pronti finché vuoi ma fino a quando non sapremo cosa sarà permesso e cosa no, non potremo pensare di mettere in piedi un concerto come si deve. Il disco secondo me merita uno spettacolo che non sia troppo ridotto, finché non avremo le condizioni non lo potremo fare e dubito francamente che si potrà fare entro breve. Sai, uno showcase in due, piano e voce con un po’ elettronica, sarebbe realizzabile però non credo sia una buona idea, forme alternative per questo tipo di progetto non ne vedo, sinceramente.
Se però ci fossero le stesse condizioni dell’estate scorsa…
Non mi sembrano adatte neanche quelle: banalmente, il pubblico dovrebbe stare seduto e non è proprio il caso! Poi vedremo cosa porterà la vita, siamo tutti in sospeso, al momento. Sono molto stanco di fare previsioni, di mio non sono una persona pessimista e non voglio lasciare che il pessimismo prevalga, però siamo proprio stanchi, non solo io ma tutto il settore. La musica funziona anche da collante sociale, se noti durante questo periodo gli stream sono diminuiti tantissimo, segno che parecchia gente, quando è chiusa in casa, la musica non la ascolta. È una situazione complessa, davvero.
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