R E C E N S I O N E
Recensione di Arianna Mancini
”…Senza animosità, senza drammi, sentiamo semplicemente di aver fatto il nostro corso…”. Era il 9 ottobre del 2006 e gli Arab Strap annunciavano così la fine del loro sodalizio artistico. Un monito che suonava come un verdetto ineluttabile. Aidan Moffat e Malcolm Middleton salutavano la scena musicale indipendente europea, la schiera di fan ed il loro sound avvolgente e dalla cupezza ipnotica.
La loro storia inizia a Falkirk a metà anni Novanta. Aidan Moffat (voce) ed il polistrumentista Malcolm Middleton (chitarra, basso, sax, piano e drum machine) muovono i primi passi del loro progetto in un’atmosfera intima con materiale registrato in casa. La svolta arriva con l’etichetta indipendente Chemikal Underground che nel 1996 pubblica il loro primo album studio The Week Never Starts Round Here. Si sono fatti conoscere con il singolo The First Big Weekend, pezzo considerato dalla band stessa come brano minore dell’album. Da allora hanno iniziato a cavalcare i palchi e a farsi conoscere nell’ambiente di nicchia ed alternativo, che sforna sempre sciccherie impreviste, condividendo le stesse realtà dei conterranei e amici Mogwai, a tratti vicini anche in alcuni passaggi sonori. Da lì altri cinque album studio ed il commiato nel 2005 con The Last Romance. Ad immortalare definitivamente ed in maniera epigrafica il loro scioglimento nel 2006 esce Ten Years of Tears una raccolta di singoli, b-side e brani inediti. Metafora a metà fra un testamento ed una lettera d’addio.

Dopo la scissione della band Moffat ha realizzato dischi in collaborazione con Bill Wells, pianista indie-jazz scozzese e con il virtuoso chitarrista di Glasgow R.M. Rubbert. Ha inoltre pubblicato due album con lo pseudonimo L. Pierre (Touchpool nel 2005, Dip nel 2007) e Aux Pieds De La Nuit nel febbraio 2020 aka Nyx NóTT. Middleton ha realizzato cinque album sotto suo nome (Sleight of Heart del 2008 ne vale la menzione) e altri con lo pseudonimo Human Don’t Be Angry, il cui tour di presentazione toccò anche il territorio italiano facendo tappa a Milano presso la Santeria ad inizio autunno 2012.
Nel 2016 il duo torna insieme per un tour nel Regno Unito, l’anno successivo estende il giro di boa allargando il raggio dei concerti che li vede presenziare al Primavera Sound di Barcellona, al Pitchfork Music Festival di Chicago e al Siren Festival di Vasto. Nel cuore dei fan si accende l’accorata speranza di un ritorno ed il desiderio non tarda a concretizzarsi, per lo più in un periodo in cui “i giorni si stanno facendo scuri”. Tempismo perfetto per il duo scozzese, disco necessario.
As Days Get Dark è uscito il 5 marzo per Rock Action e prodotto da Paul Savage, nomi già presenti nella storia degli Arab Strap. La squadra vincente si riunisce escludendo l’ipotesi di riproporsi alla vecchia maniera, “…non c’è ragione di rimettersi insieme per realizzare mediocrità…” per dirla con le parole di Middleton.
“…Parla di disperazione e oscurità ma in maniera divertente…” descrive Moffat. Un disco notturno che punta la lente d’ingrandimento sugli elementi che abitano il lato oscuro dell’essere umano. La vita, la morte, il sesso, le pulsioni, le derive dovute dagli eccessi, i rimpianti tipici dell’invecchiamento. Il tutto incendiato dall’autentica pungente ironia e arguzia di Aidan. L’audace sarcasmo trapela anche dal nome della band, il “cinturino arabo”, sex toy in cuoio per mantenere l’erezione.
Negli undici “notturni” che compongono l’album si avverte il caratteristico ed inconfondibile marchio di fabbrica Arab Strap, tanto caro ai suoi seguaci. Quella mescolanza di post-rock e post-punk ma rielaborata e arricchita con sonorità pulsanti ed inesplorate. Volteggi di archi, richiami di fiati, bagliori elettronici, il suono corposo delle chitarre, accuratezze che hanno raggiunto la maturità. Il tocco unico della voce baritonale di Aidan ci guida dipanandosi fra il cantato, il recitato e lo spoken.

Sin dalla prima traccia si ha la sensazione di entrare in un calamitico tunnel e che l’ascolto avverrà fluido senza saltare un brano. The Turning of Our Bones è stata ispirata dal Famadihana, un rituale del Madagascar in cui le ossa dei defunti vengono riesumate e vestite per presenziare al cerimoniale delle danze. Il magnetico intro di chitarra confluisce in un ritmo disco, entra la voce di Moffat che si alterna fra lo spoken ed il cantato a cui si aggiungono nel procedere incursioni di fiati, raffiche di bonghi con crescente finale di archi.
In Another Clockwork Day e Bluebird l’atmosfera si fa lieve e rarefatta. La prima con la sua linea di penombra tratteggiata da arpeggi delicati di chitarra unita alla melodia degli archi, la seconda con una densità nostalgica di sonorità electro. Ci raccontano di un universo di mancanze e ciò a cui le persone si rivolgono nei momenti di bisogno. Entrano in gioco i dispositivi elettronici ed i social media. A loro si affidano i personaggi delle storie-canzoni per dissetare le pulsioni insoddisfatte. Con foto del partner estratte dalla cartella del PC in cui trovare fonte di eccitazione, mentre questo sta dormendo o nei social media per chiacchierare con i fantasmi delle finestre, come quelle di Twitter di cui Bluebird ne richiama il logo.
Compersion, Pt.1 spicca per il suo ritmo in 7/4 che arriva subito nel sangue, un tappeto disco su cui si librano incursioni chitarristiche, la linea di basso circolare e densa, la voce calda di Moffat che alterna un suadente spoken ad un passionale cantato. Si parla di un rapporto di coppia fluido, aperto ad una terza presenza.
Kebabylon ci racconta lo scenario offuscato di primo mattino dopo gli eccessi notturni. Tutto il brano è un’esplosione di sonorità con l’alternarsi di cori prorompenti, archi lussuriosi, sassofoni imponenti. Il tono vigoroso si fa malinconico in Tears on Tour, tinta da una linea glaciale electro-goth anni Ottanta. Una confessione di Moffat che ci parla delle (sue) lacrime di tristezza dovute ad una perdita, di emozione e del non percepirsi.
Con The Fable of The Urban Fox ritorna il groove coinvolgente scolpito dal tripudio di archi. Unica canzone a sfondo politico del disco, metafora sulla xenofobia. Racconta di due volpi che scappano dal loro paese per cercare rifugio in città trovando invece un luogo crudele e la morte.
Il pathos lunare di Sleeper precede Just Enough, ultima taccia dell’album. Degno epilogo meditabondo sfumato sulle note del piano e della chitarra. “…just a hand to hold as days get dark…” e ciò che resta degli 11 atti non sono le cadute dei personaggi notturni ma la loro devastante fragilità.
Quante meraviglie impreviste ci regala la musica. There Is No Ending, traccia finale di Ten Years of Tears, raccolta d’addio, si è rivelata inconsapevolmente profetica. Il duo scozzese è riemerso più vivido, autentico e consapevole. Un disco coinvolgente che ti rapisce traccia dopo traccia nel suo stream of consciousness notturno. Magnetico, ombroso, passionale. Un dono giunto a ricolmare quella mancanza lasciata da quel fosco annuncio del 2005. Bentornati Arab Strap!
Tracklist:
01. The Turning of Our Bones
02. Another Clockwork Day
03. Compersion, Pt. 1
04. Bluebird
05. Kebabylon
06. Tears on Tour
07. Here Comes Comus!
08. Fable of The Urban Fox
09. I Was Once a Weak Man
10. Sleeper
11. Just Enough
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