R E C E N S I O N E


Recensione di Riccardo Talamazzi

Non può lasciare indifferenti un’opera come Notes with attachments, di Pino Palladino & Blake Mills. Comunque la si rigiri il sentimento che essa produce è qualcosa che solletica la nostra curiosità, che va oltre la semplice antinomia del “mi piace-non mi piace”. Si stimola l’idea, allora, di continuare l’ascolto per vedere dove si va a parare, come fossimo davanti a un film di cui sfugge il senso della trama ma che ci tiene incollati allo schermo. Del bassista italo-gallese Palladino non possiamo parlare che bene, data la sua monumentale storia di session man e di collaboratore con importanti artisti internazionali e faccio solo qualche nome: Tears for Fears, Phil Collins, The Who, (dopo la morte di John Entwistle), Pino Daniele, Eric Clapton, Elton John, Herbie Hancock… Mills,oltre ad essere musicista – suona la chitarra e le percussioni e in questo disco una ventina di strumenti diversi – è anche un affermato produttore discografico. La gestazione di questo album nasce attorno a dei frammenti musicali raccolti nel tempo da Palladino, poco più che germogli lasciati a maturare. Il tutto ha richiesto quasi due anni e mezzo di lavoro per ottenere un quadro perfettamente composito, ottenuto sommando un’eterogeneità di suoni e di umori per realizzare i giusti incastri di ogni tessera del puzzle. La modernità la si avverte a pelle, prima d’ogni analisi emotiva e intellettuale.

Probabilmente il centro gravitario di questo sistema strumentale è costituito dalle percussioni che molti hanno trovato d’ispirazione africana e cubana, anche se personalmente non insisterei troppo su questo aspetto. Il retaggio afro-americano (che a me ha ricordato certi lavori di Mingus…) è una fondamenta friabile, su cui la musica di questo duo – e della decina e più di musicisti che vi collaborano – si guarda bene dal costruire edifici solidi. Tutto si rende invece elastico, cangiante, mutevole come le linee di un esagramma dell’I Ching. Si tratta di un gioco di ombre sovrapposte dove appena riconosciuto l’oggetto rappresentato, ecco che le parvenze riprendono il sopravvento e tutta la nostra interpretazione deve ricominciare una nuova lettura e una ennesima decodificazione. Per esempio, i suoni. Non è facilissimo riconoscerli, spesso sono elettronici, frequentemente mischiati agli strumenti acustici. Un mondo di ibridi, così come frutto di ibridazione è l’intero lavoro in questione. Sassofoni – guidati da quel giovane folle di Sam Gendel, lo “Zappa del jazz” – chitarre, clarini, tastiere, frequenze basse che s’incistano nelle nostre trombe di Eustachio, qualche sospiro e what else? marimbe, tamburi esotici, campane e altre varie mirabilia.
Partenza con Just wrong, venticinque volte ripetuta una singola nota in Fa del sax prima dell’arrivo del pieno orchestrale che segue una melodia alla Gil Evans, forse il pezzo più jazz di tutto il disco. A metà brano i sassofoni raddoppiano precedendo l’ingresso degli archi sopra un tempo dispari di batteria. Arriva il funky stralunato di Soundwalk, lo spazio sonoro comincia a popolarsi di ombre che rimandano all’A.A.C.M di Chicago, la musica si dilata e si espande e poi si frammenta in mille rivoli di suoni, ma sono i fiati, comunque, a comandare il gioco. Un organo di sottofondo ne rimarca il volume tridimensionale, senza comunque deprivarli della loro centralità. Ekutè procede con un tono altrettanto orchestrale su un pavimento ritmico di decisa impronta africana e ogni tanto compare una tuba, tanto per non farci mancare niente. Il basso diventa ultra potente, avvolgente, magmatico, l’atmosfera vira verso il drum and bass ma non si sconfina mai in territori dance. Inaspettatamente melodico e seducente è il brano che dà il titolo all’album, Notes with attachments. Non si tratta però di una melodia in senso tradizionale. Il suo fascino sta nell’emergere dagli strumenti quasi fosse un caso – e non lo è, evidentemente – come Afrodite che nasca dalla spuma del mare, un momento insolito di tranquilla e meditata bellezza. Djurkel, introdotta da un arpeggio di strumento cordofono, è suggestione desertica piena di miraggi evocati dai fiati e dalla fitta trama di archi in sottofondo. Questo almeno fino a metà del brano dove un’improvvisa esplosione sonora – basso, chitarra distorta, fiati – pare voler mutare direzione e infatti le sonorità si saturano soprattutto per mezzo di un sax lancinante. La traccia che segue, Chris Dave, vede appunto l’omonimo batterista cimentarsi in una complessa fioritura ritmica sulla quale sassofono e tastiere prima, chitarre poi, si accordano per creare un insieme vaporoso di sonorità squillanti. Una voce sospirata e incollata al microfono introduce Man from Molise, dove si ascoltano dei canti quasi abbozzati ma subito ritratti. Il brano inizia con una certa delicatezza, poi si arricchisce di corde pizzicate che rimandano a sintonie dal sapore greco e mediterraneo. Chiude tutto Off the Cuff, costruito sopra un’unica frase reiterata del basso di Palladino. L’intero lavoro richiede qualche avvicinamento più analitico rispetto a un’attenzione superficiale perché, nonostante la sua apparente frammentazione, solo ascoltandolo più volte si riesce a ricreare quell’insieme dinamico che lo caratterizza nella sua globalità. Musica nuova comunque, che riconosce poche paternità ben individuabili, ma, in definitiva, molto stimolante e creativa.

Tracklist:
01. Just Wrong
02. Soundwalk
03. Ekuté
04. Notes With Attachments
05. Djurkel
06. Chris Dave
07. Man From Molise
08. Off The Cuff