R E C E N S I O N E
Recensione di Stefania D’Egidio
Il giorno di San Patrizio è passato da un po’, eppure sento ancora quella nostalgia canaglia che mi fa desiderare di ballare e alzare una pinta con gli amici, sarà perché ho passato la Pasqua a ficcare tamponi nel naso delle persone, perché nell’ultimo anno abbiamo visto andar via troppi, senza neanche il tempo di salutarli, o perché ogni santo giorno si è tempestati di brutte notizie e non se ne può più: a volte ci vuole una sana dissociazione dalla realtà per poter sopravvivere.
Mi scollego per un’ora dal mondo e mi ascolto Hestia l’ultimo album dei The Rumjacks, un quintetto folk punk multietnico, seppur originario di Sydney: basta scorrere i nomi dei componenti per capire che i loro nonni non sono nati tra canguri e koala, sarà per questo che la loro musica, come quella dei più famosi Pogues, dei Dropkick Murphys e dei Flogging Molly, ricorda più i suoni tradizionali irlandesi o scozzesi che il rock australiano. Un tripudio di note che affondano le loro radici nelle melodie celtiche, fatte di strumenti non convenzionali come mandolino, banjo, fisarmonica e cornamusa, dalla grande vitalità e che denota un autentico e orgoglioso attaccamento alle proprie origini.

Uscito lo scorso 12 marzo per l’etichetta Four Four/ABC Music, Hestia è stato prodotto dal cantante Mike Rivkees, ma nel lavoro, il quinto in studio per la band, scorre anche tanto sangue italiano, sia per la presenza dietro le pelli di Pietro Della Sala, sia per la registrazione, il mixaggio e la masterizzazione affidati a Maurizio Cardullo, Gianluca Amendolara e Andrea De Bernardi presso il Crono Sound Factory e l’Eleven Mastering di Milano e Busto Arsizio. Quattordici tracce su doppio vinile rosso scuro e una password per scaricare gli mp3, se proprio vi piacciono le diavolerie moderne, con un titolo solo apparentemente stravagante, ma con un suo perché (Hestia in greco è la dea del focolare, della famiglia): se dovessi scegliere un aggettivo per descriverlo, sceglierei scoppiettante, con un cambio di frontman che non fa rimpiangere affatto Frankie McLaughlin, sostituito da Rivkees, che si fa apprezzare soprattutto per il piglio più hardcore del suo timbro vocale.
Brani belli veloci, fatta eccezione per la title track, per Through These Iron Sights e Sainted Millions, con un ingannevole intro lento, ma che poi decollano nel giro di poco a suon di power chords e di una sezione ritmica prepotente: basso e batteria picchiano come non ci fosse un domani, virando anche verso ritmi martellanti decisamente metal, come nell’intermezzo di Lizzie Borden o in Golden Death, per il resto è un album dannatamente punk rock, con sfumature a volte da west coast, in Tell Me What Happened ad esempio, altre dal sapore caraibico, con il ritmo regge di Bullhead.
In ogni caso pezzi di facile presa che ti entrano subito nel cuore e nella testa con quella sovrapposizione di voci che fa venir voglia di cantare a squarciagola con le braccia tese al cielo, come in Light My Shadow, la mia preferita; qualcuno più allegro, qualcuno più nostalgico, come la ballad Rhythm of Her Name, ma tutti comunque accomunati da uno spirito danzereccio e di aggregazione, fatto di anime che pogano sotto il palco, di magliette sudate e di amici che si abbracciano. Solo Dio sa quanto ci mancano quelle belle serate punk sotto il cielo stellato del Circolo Magnolia o al caldo delle luci dell’Alcatraz, ho nostalgia persino delle zanzare e dei pestoni sui piedi e, tanto per citare i Rumjacks in Athens To The North: “I’ll wake you when the war is over!/ svegliatemi quando la guerra sarà finita!”
Voto: 10/10 perché è un’infusione di gioia e vitalità
Tracklist:
01. Naysayers
02. Bullhead
03. Hestia
04. Trough These Iron Sights
05. Sainted Millions
06. Tell Me What Happened
07. Rhythm of Her Name
08. Golden Death
09. Lizzie Borden
10. Light in My Shadow
11. Wonderust
12. Athens to The North
13. Motion
14. Goodnight, Make Mends
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