R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
Esultate, o seguaci dell’organo Hammond!! Dr.Lonnie Smith torna su disco Blue Note dopo tre anni dall’ultimo lavoro, All in my mind edito nel 2018 con una nuova opera – Breathe – registrata come la precedente sempre dal vivo nello stesso locale di New York, il Jazz Standard. Certo, l’organico che lo accompagna in questi nuovi brani si è allargato rispetto a quello più essenziale dell’antecedente uscita discografica, diventando un potente settetto ricco di fiati. Inoltre compaiono in aggiunta, oltre alla parte live, due brani registrati in studio in cui Iggy Pop fa la sua apparizione come cantante, in apertura e chiusura del disco stesso. L’organo Hammond, frutto dell’invenzione dell’omonimo ingegnere americano, è uno strumento dal cuore caldo che ha costituito l’anima non solo del soul-jazz di Lonnie Smith e di altri suoi illustri colleghi come Jimmy Smith, Lou Bennett, Joey De Francesco, John Medeski tra gli altri, ma che ha ottenuto forse ancora più credito nel mondo del rock. Ricordo Brian Auger, Keith Emerson, Steve Winwood, Jon Lord, Rick Wakeman e insomma una pletora di artisti comprendendo anche gli italiani come Demetrio Stratos, Vittorio Nocenzi, Flavio Premoli, Tony Pagliuca, tutti musicisti che hanno utilizzato quest’organo soprattutto nel progressive, oltre che in ambito pop o soul. Il suono Hammond, reso ancor più affascinante dal sistema di amplificazione rotante chiamato popolarmente “Leslie”, ha caratterizzato un’epoca piuttosto vasta della musica moderna, soprattutto tra gli anni ’60 e ’70, ma conservando ancora oggi una posizione di rilievo tra i vari strumenti elettronici, pur non essendo più tra le scelte espressive principali dei giovani tastieristi.

Lonnie Smith conosce bene il significato di Groove, termine quasi intraducibile in italiano, ma che allude ad un solco, un vortice che coinvolge e attrae nel proprio centro gravitazionale una sensazione apportatrice di benessere e di identificazione col senso melodico e ritmico della musica. Per arrivare a tutto questo, Smith si è impegnato in una lunga gavetta, iniziata nel ’66 a fianco del chitarrista George Benson. Però già nell’anno seguente venne arruolato tra le fila della Bue Note che lasciò nel ’70 per poi ritornarvi, quarantacinque anni dopo, con il suo Evolution in compagnia di Joe Lovano e Robert Glasper. A volte tornano gli antichi amori, quindi, ma la sua musica è sempre press’a poco rimasta la stessa, un jazz dalla struttura soul, realizzato con leggerezza senza essere superfluo né banale, gradevole a tutti i palati e in tutte le stagioni. Il primo brano che ascoltiamo è l’arcifamosa Why can’t we live together portata al successo planetario da Timmy Thomas nel’73, rifatta, tra gli altri, dieci anni dopo da Sade nel suo lp Diamond Life e qui riproposta dalla voce di Iggy Pop. L’ex Stooges, in questo intervento, non è niente di che ma fa simpatia che due artisti di provenienza culturale così lontana si siano accordati per tracciare insieme il profilo di questo vecchio hit. Notevole l’arrangiamento musicale che si avvale non solo dell’apporto graffiante dell’Hammond di Smith ma anche del piacevolissimo solo di chitarra di Jonathan Kreisberg e dal drumming deciso di Johnathan Blake. Sale la temperatura, per altro già bella calda, con Bright eyes. La batteria diventa più swingante e compaiono i fiati a sottolineare l’assolo di Smith. In particolar modo risalta il secco fraseggio di John Ellis al sax tenore con il piacevolissimo accompagnamento dell’organo. Gli applausi registrati sottolineano giustamente i momenti dei vari passaggi e gli scambi di testimone tra i musicisti. Too damn hot è un brano raccolto, un quasi-blues dal tono introverso che nella parte centrale aumenta il volume, sempre giocando con un dialogo intimo tra organo, fiati e chitarra, quest’ultima discretamente in sottofondo a far da quinta allo sviluppo progressivo dell’intera linea musicale. Track 9 è il brano più funky e più moderno, con qualche seduzione free messa lì più come pura intenzione che non in quanto effettiva realizzazione. Anche qui, come in tutti i pezzi funkeggianti che si rispettino, i fiati spadroneggiano, comandati dalla personalità del trombonista Robin Eubanks ma vola alto la tromba di Sean Jones mentre questa volta il sax che si ascolta è quello baritono di Jason Marshall. Le pelli del rullante e del tom di Blake introducono World weeps che è il momento più raccolto dell’intero disco, quasi liturgico, con la chitarra di Kreisberg che richiama a tratti quella di Bill Frisell, impegnata in un accorato assolo dai toni sommessi che nella parte di mezzo pare diventare quasi un grido, a precedere l’entrata drammatica della tastiera di Smith. Pilgrimage è un gospel introdotto dal chiesastico timbro dell’Hammond in cui compare la voce pulita di Alicia Olatuja e una chitarra dolce nella timbrica che la segue con discrezione sino all’assolo, molto misurato ed espressivo fino al punto in cui irrompe la vigoria dei fiati che precede la parte conclusiva. La Olatuja sale di tono e va a pizzicar le stelle con le sue note più alte prima del gran finale. Si ascoltano gli apprezzamenti di Smith e la risata soddisfatta di gioia della cantante per la propria prestazione. Poteva mancare un brano di Monk in questa serata live? Certo che no, quindi si va con Epistrophy, pezzo del’57, qui rifatto in una strana versione funky che ricorda la mano di Miles Davis in Bitches Brew. La chiusura si fa in studio di registrazione, lontano dal pubblico riprendendo un vecchio hit di Donovan, Sunshine superman del ’66. Anche qui è Iggy Pop a intonare la canzone, trasformata in un moderato rhythm and blues dove l’estro armonico di Lonnie Smith si scatena in una serie di passaggi canonici alla tastiera, molto in linea con l’atmosfera sixties del brano. Un lavoro di grande mestiere e piacevolezza, questo Breath, titolo quanto mai opportuno da interpretare in duplice chiave. Respirare in un’epoca di mascherine obbligatorie è, più che un augurio, quasi una raccomandazione a resistere agli eventi. Inoltre nel panorama della musica odierna, spesso piena di tensione ed astruse dissonanze, dove domina l’aspetto cerebrale dell’Arte, un bel respiro profondo come questo disco ci riavvicina al ritmo e all’emozione, che sono le due cose che in fondo andiamo da sempre cercando in tutta la musica.
Tracklist:
01. Why Can’t We Live Together Feat. Iggy Pop
02. Bright Eyes (Live)
03. Too Damn Hot (Live)
04. Track 9 (Live)
05. World Weeps (Live)
06. Pilgrimage (Live)
07. Epistrophy (Live)
08. Sunshine Superman Feat. Iggy Pop
Rispondi