R E C E N S I O N E
Recensione di Riccardo Talamazzi
La presenza di Wayne Shorter aleggia come un nume tutelare sul lavoro dei Sound Prints di Joe Lovano e Dave Douglas. Dopo le prime due prove, una dal vivo nel 2015 – Live at Monterey jazz festival – e la seconda in studio – Scandal – del 2018, la coppia ritorna sugli scudi con un lavoro in cui, pur non essendoci brani di Shorter, restano comunque evidenti le sue “impronte sonore”. Le orme del celebrato sassofonista del New Jersey sono infatti lo strumento valoriale con cui il quintetto continua a misurarsi. Non è certo da intendersi, tutto ciò, come una sorta di competizione e nemmeno come un semplice omaggio. Si tratta invece, per Lovano e Douglas, di rimescolare le proprie energie creative sotto l’egida ispiratrice di Shorter. L’intento è quello di sviluppare e proseguire parte della sua filosofia aggiungendovi una personale visione esecutiva per ottenere musica originale ma in linea con il percorso già tracciato dall’anziano maestro. A dirla tutta, la genesi di questo quintetto non è per nulla improvvisata. Lovano col sax, Douglas con la sua tromba e il batterista Joey Baron si conoscono da una vita e hanno già suonato insieme diverse volte nel ventennio tra i ’70 e gli ’80. La contrabbassista Linda May Han Oh, molto apprezzata nell’ambiente dei più grandi jazzisti americani, l’avevamo già segnalata su queste pagine per la sua quadrata collaborazione in Uneasy con Vijay Iyer. Infine l’apporto del pianista Lawrence Fields, conosciuto da Lovano quando ancora era studente alla Berklee, completa la formazione di questo ultimo lavoro Other worlds.

Il quintetto ha sperimentato le composizioni che appaiono nel disco dopo averle proposte per qualche giorno in anteprima al pubblico del Village Vanguard nel 2020, prima del lockdown. La sequenza dei brani veniva cambiata ogni volta per saggiare gli sviluppi dell’improvvisazione e poter acquisire così la sicurezza dell’interplay necessaria ad un amalgama soddisfacente. Other worlds non è un lavoro di facile assimilazione, così come non lo è, in generale, la musica di Shorter. Vi sono momenti più scorrevoli in cui la tradizione sedimentata di un certo modo d’intendere il jazz, e mi riferisco al periodo degli ultimi anni ’60, rende l’ascolto piacevole e più riconoscibile all’esperienza percettiva della maggior parte del pubblico. Vi sono invece altre istanze in cui la musica si spinge al limite obbligando l’ascoltatore ad uno sforzo di comprensione per decifrare le linee guida del progetto, creando alcuni momenti di perplessità.
Il disco s’annuncia con Space exploration di Lovano, in cui gli strumentisti paiono prendersi le misure l’un l’altro e testare la loro prossemica sonora. In realtà questo brano, insieme al seguente Shooting stars e a The flight farebbe parte di una trilogia che dal vivo viene eseguita in sequenza ma che sul disco, inspiegabilmente, risulta separata, per cui The flight è stato slegato dai brani precedenti e posticipato nella successione delle tracce. Gli strumenti sono liberi, l’improvvisazione consacra sé stessa confluendo nel breve linguaggio aritmico di Shooting stars. Quando arriva Life on Earth si torna, a tutti gli effetti, sul nostro pianeta e si respira un’aria più familiare. L’improvvisazione recede per far posto ad una trama armonica molto ricca, ben stigmatizzata dai numerosi accordi in sequenza del piano di Fields. Sax e tromba se la raccontano procedendo all’unisono e qui, veramente, le tracce di Shorter degli anni’ 60 si fanno più evidenti. C’è abbondante spazio per due assoli discorsivi di tromba e sassofono mentre la batteria segue un veloce tempo intero.
Manitou è introdotta da un incedere pianistico di umore quasi classico, il brano concede terreno non solo ai fiati ma anche al solo di contrabbasso, misurato come nello stile della Han Oh, alle cui spalle il piano provvede a far fiorire qualche luminoso accordo di sostegno. Antiquity to outer space è opera di Douglas. Lui stesso racconta che il brano riassume una serie di riflessioni sul periodo storico dell’antica Grecia e sulla sua crescita culturale, con le prime semine di quello che diventerà in seguito un vero e proprio cammino di conoscenza. Il pezzo ha un incedere un po’ misterioso, per molti versi con frasi slegate e affidate ad una improvvisazione che pare a tratti lievemente incerta. The Flight, il famoso frammento separato della trilogia di cui sopra, mostra una struttura che ricorda certe costruzioni alla Monk, con il piano che ribadisce una modalità sghimbescia di accompagnamento mentre i fiati si danno continuamente il cambio negli assoli. Complessa realizzazione, molto contemporanea e spettrale, sicuramente non un pezzo “bello” in senso canonico ma decisamente interessante nel suo incedere inconsueto. The trascendentalist è una morbida ballata notturna. Douglas mette la sordina alla sua tromba e innesca una serie di ricordi legati a Miles Davis, a certe atmosfere rarefatte degli ultimi anni ’50. Grande raffinatezza nei tagli strumentali e nella conduzione delle parti, col sax di Lovano che assume una calda tonalità e gareggia con la tromba di Douglas in finezze timbriche. Menzione d’onore al pianista che trova il tempo per un bellissimo, misurato e astratto assolo per ribadire l’ambientazione urbana dell’intero brano. Dieci e lode per tutti. Sky Miles riprende nel titolo un vecchio disco di Miles Davis del’68, Miles in the sky e parte swingando appoggiandosi sulle precise note del contrabbasso e dando spazio a Lovano che si esprime in un secco e convulso assolo. Quando lo swing molla il colpo, però, il brano si sfilaccia. Douglas interviene con la tromba in un primo tempo, poi è il piano ad inventarsi le note ma la parte ritmica si è dissolta e il contrabbasso ne può solo raccogliere i frammenti. Pythagoras si ricollega alle meditazioni di Antiquity ma la traccia è molto più sciolta e dimostra una piacevole irrequietezza ritmica che l’allinea nel filone piuttosto classico del post-bebop, quello frequentato anche da Shorter ai tempi di Miles. Midnight march si introduce con un passo marziale ottenuto dal lavoro sul rullante di Baron. Entrano poi all’unisono i due fiati che scansionano lo spazio a disposizione fino al momento in cui il contrabbasso interrompe il loro procedere con un deciso, spigoloso assolo. La coppia di fiati si separa permettendo a Lovano di sbizzarrirsi in una serie di fraseggi piuttosto free, sui quali si accoda anche il piano in un secondo tempo. Da ultima, la tromba squilla anch’essa le sue note in attesa del gran finale con un ulteriore, dissonante unisono e con la batteria, infine, a chiudere i giochi. Sostanzialmente si tratta di un lavoro complesso, sostenuto da musicisti di grande caratura, anche se non sempre la realizzazione si dimostra coerente a sé stessa. Vi sono infatti alcuni momenti di assenza in un panorama che dimostra comunque grandi intenzioni, con periodi solidi e realizzazioni per certi versi impeccabili mescolate ad altre soluzioni invece un po’ più forzate. Questo lavoro ci fa oltremodo capire l’importanza dell’ispirazione Shorteriana nella musica jazz contemporanea e come, due giganti del peso di Lovano e Douglas, cerchino da sempre di trarne ispirazione.
Tracklist:
01. Space Exploration
02. Shooting Stars
03. Life On Earth
04. Manitou
05. Antiquity to Outer Space
06. The Flight
07 The Transcendentalists
08. Sky Miles
09. Pythagoras
10. Midnight March
Photo © Geoff Countryman
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